Venerdì 18 ottobre alla mostra “The Dark Side. Chi ha paura del buio?” da Musja


Musja nasce in via dei Chiavari, luogo simbolo della famiglia Jacorossi, Nonno Agostino inizia la sua attività imprenditoriale nel 1922 gestendo un negozio di carbone. In seguito Ovidio Jacorossi (classe 1934) e il fratello Angelo ereditano il gruppo in giovane età e trasformano l’azienda, portandola ai vertici tra gli anni ’80 e ’90.

Musja è ora il nuovo museo privato per l’arte contemporanea a Roma. La vasta collezione di opere dal primo Novecento italiano ad oggi raccolte nel corso di quarant’anni, sarà affiancata nel corso delle attività alle tendenze contemporanee più innovative del panorama internazionale con l’obiettivo di proporre l’arte come contributo fondamentale alla crescita della persona e della collettività.

Il progetto prosegue una lunga avventura umana e imprenditoriale e sarà perciò la casa della collezione, un corpus di opere costruito su due capisaldi che sono stati le linee guida di ogni scelta: la forza creativa sprigionata dall’arte contemporanea (un formidabile strumento di crescita per tutti, non solo per gli addetti ai lavori) e la centralità della persona in ambito sociale, politico, economico, religioso e scientifico.

In programma dall’8 ottobre al 1° marzo, la mostra “The Dark Side. Chi ha paura del buio?” a cura di Danilo Eccher, che trasforma il museo in un post luna-park concettuale tra corde rasta e croci razziste, bruciature e ragnatele, animali giganti e sangue sulle tele in cui i 13 artisti coinvolti indagano nuove prospettive attraverso l’oscurità, reinventando archetipi e immaginando mondi surreali.

Detto così sembrerebbe un set di Dario Argento, in realtà l’ambiente viene trasformato in un luogo immersivo e sensoriale che parla fluidamente e stuzzica quattro sensi su cinque: la vista in modalità aumentata, il tatto che ci invita al tocco furtivo di alcune opere, l’olfatto quasi sempre acceso e l’udito che si diffonde dove serve; resta fuori il gusto che riserverei per un aperitivo da Roscioli uno dei più antichi forni a Roma, a pochi metri da Musja, dove la paura annega nei fremiti alcolici.

Splendido recupero conservativo di un edificio le cui fondamenta includono il famoso teatro di Pompeo dove si racconta essere stato pugnalato Giulio Cesare. L’ingresso da via dei Chiavari permette di fruire della visita dei locali al piano strada che ospitano la Collezione di opere d’arte della Fondazione Musja.

I singoli progetti esposti vengono visionati dal pubblico man mano che si percorrono gli antichi corridoi che si contraddistinguono per via di soffitti e mura affascinanti.

The Dark Side rappresenta il “lato oscuro” che è in ognuno di noi, gli inciampi reali o presunti della vita che impongono una pausa, una riflessione, che fanno battere il cuore ma, allo stesso tempo, accendono nuove possibilità, nuovi pensieri, nuove prospettive. Si tratta di accedere ad una dimensione buia e oscura che si cerca inutilmente di evitare o nascondere, ma che invece reclama una forte presenza, esige uno sguardo coraggioso.

                        Monster Chetwynd, Red and Black Head, 2018

La paura va così domata, controllata, resa partecipe e amica della propria avventura umana, il lato oscuro non va negato, deve essere invece riconosciuto, coinvolto, vissuto. Il complesso ambito tematico del progetto è organizzato in tre momenti espositivi, distribuiti nell’arco di tre anni, e rispettivamente dedicati alla: “Paura del Buio”, “Paura della Solitudine”, “Paura del Tempo”. Il primo appuntamento è dedicato alla “Paura del Buio”.
Scopritele in 30 secondi 👇🏻
https://twitter.com/MusjaMuseo/status/1196729831699800064

È stata pensata da Eccher come una sorta di terapia collettiva, con il coinvolgimento di 13 tra i più importanti artisti del panorama internazionale: Christian Boltanski, Monica Bonvicini, James Lee Byars, Monster Chetwynd, Gino De Dominicis, Gianni Dessì, Flavio Favelli, Sheela Gowda, Robert Longo, Hermann Nitsch, Tony Oursler, Chiharu Shiota e Gregor Schneider.

                        “Bat” di Monster Chetwynd

Fino al 1° marzo 2020, dunque, allestite lungo i mille metri quadri di spazi espositivi di Via Chiavari 7, riprogettati dall’architetto Carlo Iacoponi, si vedranno opere di formato monumentale e di grande impatto visivo come il pipistrello gigante della britannica Chetwynd (classe 1973), o le ragnatele nere che tutto avvolgono della giapponese Shiota (classe 1972).

Alcune opere site-specific sono prodotte per l’occasione (Camera scura, 2019, di Gianni Dessì), altre provengono dalla collezione Jacorossi (Untitled, 1985, di Gino De Dominicis) oppure sono prestiti temporanei da fondazioni, istituzioni e gallerie (Mobilia Essay, 2015, di Flavio Favelli, dal Castello di Serravalle).

Si parte con il tedesco Gregor Schneider, rimasto un mese a Roma per completare il suo corridoio dark in cui opere e pareti sono il risultato mefistofelico di un ipotetico incendio in pinacoteca.

L’installazione invita allo sguardo nel buio, coinvolgendo -tra sentori di fuliggine e pitture sopravvissute- alcuni quadri (collezione Jacorossi) che bruciarono realmente in un incendio del 1992.

Appena usciti dal nero cosmico ci si imbatte nelle tre sculture gigantesche della Chetwynd, sorta di halloween museale tra scenografie b-movie, mostri di Bomarzo e Carnevale di Viareggio. Sono opere divertenti e al contempo repulsive, assurdamente kitsch nel loro spirito esoterico e ridanciano, fagocitanti per cannibalismo metaforico e grottesco gotico.

                       Christian Boltanski, Les Ephemeres, 2018

Il francese Christian Boltanski proietta il volo degli efemerotteri su alcuni sudari a soffitto, sfidando la brevità biologica delle loro vite con una morbidezza che rifonde luce dopo il vortice nero di Longo (classe 1953). Quasi una rinnovata speranza, intrisa di una morte che è dentro la natura, fuori dagli artifici morali.

Proseguiamo il nostro sipario con le tende rosse socchiuse di James Lee Byars, alchimista delle arti (l’artista americano è morto nel 1997) che immaginava la sua utopia cosmogonica, il suo universo metafisico con cui sollevare gli uomini dal limite delle carni mortali. Dietro le tende scorgiamo una misteriosa sedia del XVII secolo, adagiata in uno spazio vuoto, sorta di rimando alla memoria umana, al rito della Storia, alla speranza terrena che anima il pensiero prima dell’utopia.

                       James Lee Byars, The Chair of Transformation, 1988

Questa camera rossa somiglia alla navicella con cui sono sceso sul Pianeta Terra, mi viene quasi da pensare che l’artista avesse intuito qualcosa sui mondi alieni che popolano le galassie.

Voi terrestri siete davvero incredibili: riuscite a vedere così lontano, andate dove la veggenza spalanca confini e poi vi perdete in un bicchier d’acqua (si dice così, giusto?). E’ la Terra il vero mistero dell’universo, fidatevi.

Flavio Favelli infila tubi al neon dentro lampadari in cristallo che ricordano un interno kubrickiano. Sembra un lavoro meno dark side degli altri, in realtà è un inquietante mix tra passato domestico e freddezza industriale, un tocco postatomico per un destino distopico da “Black Mirror” barocco.

                       Robert Longo, Untitled (Burning Cross-From the American Stories Cycle), 2017

L’americano Robert Longo ti arriva addosso come un gancio allo stomaco: il suo disegno gigante con una croce infuocata è puro terrore da razzismo feroce, un’icona mostruosa in stile KKK che ci avverte sul più subdolo tra i pericoli sociali.

La paura, figlia del nero oscuro, diventa terra solida ma labile, proprio come il tratto della sua affidabile e ossessiva manualità.

L’indiana Sheela Gowda dispone lungo i muri le sue corde di capelli intrecciati, una sorta di mappatura del passaggio umano, delle tracce fisiche, dei reperti che contengono l’incertezza, la perdita, il continuo cadere mentre si attraversa il buio.

L’altro americano Tony Oursler proietta volti su elementi sagomati, confermando un’invenzione videografica che ancora regge dopo decenni; le facce che parlano sono oniriche e taumaturgiche, una decapitazione declamante in cui il futuro tecnologico teatralizza un sogno mostruoso tra Philip K. Dick e William Gibson.

                       Tony Oursler, SenS, 2019

                        Tony Oursler, Block, 2019

                       “Shiota”, di Gino De Dominicis

La giapponese Chiharu Shiota ci regala un momento perfetto: una stanza con due brandine singole e un filare impressionante di ragnatele nere che avvolgono i letti, come se durante la notte avesse preso forma l’archetipo degli archetipi, il grande mostro che tesse i fili del possesso totale.

Gianni Dessì si muove tra pittura e scultura, ricreando un gioco di sfasature ottiche, una prospettiva guidata in cui una piccola testa incarna una vertigine lisergica nel rosso. La grotta di Dessì mescola violenza cromatica e riflessione, geometria e apertura ambientale, ipnotizzando nel colore l’urlo del dolore collettivo.

In tema di sanguinamenti, l’austriaco Hermann Nitsch ci avvolge con le sue tele dal sangue rappreso, figlie dei suoi rituali di squartamento animale (Orgien Mysterien Theater). Una vera e propria liturgia che si ripresenta lungo le pareti di Musja, trasformando il piano inferiore in un luogo di sacralità inquietanti.

Gino De Dominicis segue la scia del rosso con un volto dal naso gigantesco, una proboscide da uccello satanico che sembra ritrarre tutto il mistero dietro il male.

E’ una figura spavalda, misteriosa e sospesa, un guardiano pericoloso che ci avverte sulle avversità del destino.

E sulle molte facce che la malvagità può incarnare.

Chiudiamo con Monica Bonvicini che si conferma una delle più radicali artiste italiane, spiazzante nel modo di riusare l’esistente, creando aggregati che parlano di corpi estremi e genderismi, erotismo e violenza, di confini labili tra sofferenza e piacere.

Le sue cinture nere che formano una palla o una griglia sono inquietanti, aggressive, un potenziamento dei sensi che sostituisce il corpo con la sua narrazione feticistica.

All’uscita del museo che si trova al centro di Roma vicino a Campo de’ Fiori, ci siamo sorpresi a girovagare bellamente toccando nell’ordine:

Antico Forno Roscioli, panificio attivo dal 1972, è uno dei più antichi forni a Roma


Museo di Roma Palazzo Braschi, Piazza Navona


Basilica di San Lorenzo in Lucina

Piazza di Spagna: la Fontana della Barcaccia con la scalinata monumentale e Trinità dei Monti

La Galleria d’Arte Benucci in Via del Babuino, 150c si presenta al pubblico così:

Formidabile ottobre romano: una sequela di musei, gallerie e monumenti che gareggiano per sfruttare le serate calde e accaparrarsi fiumi di pubblico, spesso criticante e poco paziente. Da curiosone ho imparato come evitare lo tsunami mondano, scegliendo un venerdì dopo l’opening per godermi la visita, quando il clima è ancora elettrizzato e le sale non si affollano di instagrammer nevrotici.

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