Onorevole voltagabbana – Valzer parlamentare – I cambi di gruppo


Dio, quanto mi fanno schifo i voltagabbana! Quanto li odio, quanto li disprezzo! I voltagabbana in Italia sono sempre esistiti in abbondanza: d’accordo. Io mi diletto di Storia, e so bene che gli italiani sono sempre stati dei voltagabbana. Per rendersene conto basta ricordare come si comportarono i sindaci toscani ai tempi degli Asburgo-Lorena. Come saltavano dal Granduca a Napoleone e da Napoleone al Granduca. Però mai quella sconcezza ha raggiunto le vette disgustose di oggi. E la cosa più tremenda sai qual è? È che, essendovi abituati, gli italiani non se ne scandalizzano affatto. Anzi si meravigliano se uno resta fedele alle sue idee. (Oriana Fallaci, La rabbia e l’orgoglio – Milano, Rizzoli 2004).


Come noto, lo scorso mese si è consumata una scissione all’interno del Movimento 5 stelle. Infatti il ministro degli esteri Luigi Di Maio ha annunciato il proprio addio e contestualmente ha inaugurato una nuova forza politica: Insieme per il futuro (Ipf). La conseguenza più immediata di questa separazione è stata la costituzione alla camera di un nuovo gruppo a cui hanno già aderito in via ufficiale altri 50 deputati.

Sono diverse le interpretazioni che sono state date a questa scelta, dal vincolo del doppio mandato, ai rapporti tra Di Maio e Giuseppe Conte…In effetti, il numero di deputati e senatori per cui rimanere nel M5s avrebbe automaticamente comportato la fine della carriera politica (salvo eventuali modifiche al regolamento interno dei 5 stelle) è un numero consistente anche se non rappresenta la maggioranza. Alla camera infatti questi sono 21 (cioè il 41% circa). Tra questi, oltre a Di Maio, anche altri tre componenti della squadra di governo: Laura Castelli, Manlio Di Stefano e Dalila Nesci.

Quale che sia la motivazione, ciò che è certo è che l’abbandono di Di Maio e dei parlamentari a lui vicini ha avuto una serie di ripercussioni in parlamento. La più evidente riguarda il fatto che il Movimento 5 stelle (con 167 unità rimaste) non rappresenta più la prima forza a Montecitorio, sopravanzato dalla Lega (193 unità). Inoltre, la nascita di Ipf ha determinato una nuova impennata del fenomeno dei cambi di gruppo.

A Di Maio piaceva la costituzione portoghese, perché impediva il cambio di casacca.
Ora lo immagino nel nuovo partito, “Movimentao Meravigliao“, mentre balla la samba a Montecitorio.
https://twitter.com/i/status/1539497951361474561

Di Maio e i proclami sul “cambio di casacca” ricordano Renzi e il suo ritiro dalla politica in caso di sconfitta al referendum…

415 i cambi di gruppo avvenuti nella XVIII legislatura
Un numero molto alto che si avvicina al record di riposizionamenti detenuto ancora dalla precedente legislatura. La situazione però è destinata a mutare ancora. Non è da escludere infatti che altri esponenti decidano di seguire Di Maio. Altri ancora invece potrebbero fare marcia indietro. Da considerare infine anche gli esponenti di altre forze politiche. In questi ultimi due mesi di legislatura infatti molti potrebbero decidere di cambiare appartenenza per assicurarsi maggiori probabilità di rielezione nel prossimo parlamento. Parlamento che peraltro sarà ridotto a soli 600 componenti.

I cambi di gruppo dal 2018 a oggi
Il fenomeno dei cambi di gruppo – seppur in maniera altalenante – ha caratterizzato l’andamento di tutta la legislatura fin dai primi mesi. Ovviamente però alcuni passaggi politici particolarmente rilevanti hanno impresso una significativa accelerazione al fenomeno. È il caso ad esempio dei cambi di governo ma anche del periodo compreso tra dicembre e febbraio, quando il parlamento è stato chiamato ad eleggere il nuovo presidente della repubblica nella stessa persona di Sergio Mattarella.


L’uscita di Di Maio dal M5s rappresenta certamente un altro momento di svolta da questo punto di vista. Ma l’ennesima diaspora subita dai pentastellati ha avuto anche un altro effetto. A causa di due abbandoni infatti il gruppo Coraggio Italia (che faceva riferimento a Giovanni Toti e Luigi Brugnaro) ha perso il numero minimo di 20 appartenenti richiesto dal regolamento della camera per la costituzione di un gruppo autonomo ed è stato quindi sciolto d’ufficio. I deputati che ne facevano parte sono stati quindi “costretti” a trasferirsi nel gruppo misto. Undici di questi si sono successivamente riorganizzati in una componente interna al misto denominata “Vinciamo Italia – Italia al centro con Toti”.

Alla luce di queste evoluzioni i cambi di gruppo registrati ufficialmente a giugno sono stati 83 in totale per il momento. Si tratta del dato più alto dall’inizio della legislatura se si considera il numero di cambi di gruppo registrati per ogni mese.


L’andamento dei cambi di gruppo, mese per mese, nel corso della XVIII legislatura
FONTE: dati ed elaborazione openpolis (ultimo aggiornamento: mercoledì 29 Giugno 2022)

Osservando i dati della legislatura nel loro complesso, possiamo osservare che i parlamentari che hanno cambiato gruppo almeno una volta sono stati 280 (197 deputati e 83 senatori). I cambi di gruppo complessivi invece sono stati 415 (8,3 al mese in media dall’inizio della legislatura).

Nella XVII legislatura il record di cambi di gruppo


Il quadro dei cambi di gruppo e dei parlamentari coinvolti nelle ultime 3 legislature (2008-2022)
FONTE: dati ed elaborazione openpolis (ultimo aggiornamento: mercoledì 29 Giugno 2022)

Facendo un confronto con le precedenti legislature, la XVII mantiene ancora il poco invidiabile record di quinquennio con il maggior numero di riposizionamenti. I dati dell’attuale però sono aumentati in maniera molto significativa nelle ultime settimane e non è da escludere che lo faranno ancora nei prossimi due mesi.

A palazzo Madama però i pentastellati rappresentano ancora il gruppo più numeroso anche se il divario rispetto al carroccio è minimo (62 senatori contro 61). È doveroso precisare che, nonostante la nascita del gruppo di Ipf sia stata già annunciata anche per il senato e sia stato già scelto anche il capogruppo (Primo Di Nicola), attualmente il gruppo non è ancora stato ufficialmente costituito. Questo perché, in base al regolamento di palazzo Madama, oltre al numero minimo di 10 senatori c’è bisogno di essere apparentato con il simbolo di una lista che si è presentata alle ultime elezioni. Stando alle fonti stampa a questo proposito sarebbero in corso trattative con Centro democratico di Bruno Tabacci. In attesa di questo passaggio, possiamo comunque valutare l’uscita di 10 senatori dal M5s a seguito dell’annuncio di Di Maio.

Risulta del tutto evidente come il M5s sia la formazione politica che più ha risentito del fenomeno dei cambi di gruppo. I pentastellati hanno infatti perso ben 162 componenti dal 2018 a oggi, dimezzando di fatto le loro file rispetto all’inizio della legislatura. Non si tratta tra l’altro della prima “migrazione di massa” di cui questa forza politica è stata vittima.

Già all’epoca della nascita del governo Draghi ad esempio erano stati molti i deputati e i senatori che, tra abbandoni ed espulsioni, avevano lasciato il movimento. Ma in questo caso si può parlare di una vera e propria scissione. Mai così tanti parlamentari infatti avevano abbandonato in blocco i gruppi pentastellati.
Oltre a Ipf, anche molti degli altri parlamentari usciti dal Movimento (al netto di quelli che sono approdati in altre forze politiche) hanno provato a riorganizzarsi in altre formazioni. Da segnalare a questo proposito la recente nascita al senato del gruppo Costituzione, ambiente e lavoro. Mentre alla camera, una significativa quota di ex 5 stelle si è riunita nella componente del misto Alternativa. Come già visto per Coraggio Italia, anche in questo caso l’affiliazione al misto è dovuta al fatto che questo raggruppamento, che al momento conta solo 15 aderenti, non ha i numeri sufficienti per costituire un gruppo autonomo.

Oltre al M5s, ci sono altre due forze politiche che, anche se in misura minore, hanno risentito dei cambi di gruppo. Si tratta di Forza Italia (-33 esponenti) e del Partito democratico (-29).

I cambi di gruppo più nel dettaglio
Come detto, il nuovo gruppo di deputati vicini al ministro degli esteri si è già formato alla camera e conta attualmente 51 membri. Tra i deputati maggiormente noti al grande pubblico che hanno scelto di aderire a Ipf ci sono il viceministro dell’economia Laura Castelli, il sottosegretario agli esteri Manlio Di Stefano, la sottosegretaria al sud Dalila Nesci, la sottosegretaria alla giustizia Anna Macina e l’ex ministro con delega allo sport e alle politiche giovanili del governo Conte II Vincenzo Spadafora.


Al senato invece, fermo restando che il gruppo dei parlamentari vicini a Di Maio non è ancora stato ufficialmente costituito, tra gli esponenti più noti ad aver lasciato il M5s troviamo il sottosegretario alla salute Pierpaolo Sileri.

Da sapere
Deputati e senatori esercitano la loro funzione senza vincolo di mandato. Un principio alla base della nostra democrazia rappresentativa, ma che con il forte incremento dei cambi di gruppo in parlamento viene messo costantemente in discussione.


Un altro abbandono dal gruppo del M5s alla camera è quello di Felice Mariani, passato alla Lega. Ma sono anche altri gli ex 5s che si sono ulteriormente riposizionati dopo aver abbandonato il movimento. Al senato ad esempio, Francesco Mollame è passato alla Lega dopo essere transitato nel gruppo misto. Sempre al senato Gianni Marilotti invece, dopo lo scioglimento del gruppo degli Europeisti è passato al Partito democratico.


In Coraggio Italia sono confluiti anche alcuni ex 5s.
Un altro cambio di gruppo degno di nota avvenuto in questo periodo è stato quello di Renata Polverini, tornata in Forza Italia dopo essere passata alla componente Centro democratico di Bruno Tabacci durante la crisi del governo Conte. Interessante notare infine che nonostante sia appena nato, paradossalmente il gruppo di Coraggio Italia ha già registrato un abbandono. La deputata Tiziana Piccolo infatti pochi giorni dopo aver lasciato la Lega per aderire al nuovo gruppo, ha deciso di tornare sui suoi passi.

Cambi di gruppo multipli
I cambi di gruppo continuano quindi a caratterizzare l’attività di deputati e senatori anche in tempo di guerra. Ciò testimonia come i partiti stiano vivendo un periodo di crisi, con rimescolamenti che contribuiscono a variare lo scenario in aula rispetto alle elezioni politiche.
Un fenomeno peraltro difficile da comprendere per i cittadini, che contribuisce a indebolire le maggioranze e a screditare il ruolo del parlamento. Dobbiamo tuttavia ricordare che si tratta di una pratica del tutto legittima, dato che l’articolo 67 della costituzione afferma che ogni parlamentare agisce senza vincolo di mandato.

Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato.
I regolamenti di camera e senato inoltre non pongono vincoli particolari per i parlamentari. Essi infatti hanno solo l’obbligo di aderire ad un gruppo ma non necessariamente questo deve essere quello della lista con cui sono stati eletti. Allo stesso modo, non sono previsti vincoli per quanto riguarda il numero di cambi che un parlamentare può fare nel corso di una legislatura.

Da questo punto di vista i parlamentari che hanno cambiato gruppo più di una volta dal 2018 sono stati 46. Tra questi, 8 hanno cambiato appartenenza almeno 3 volte.
Il parlamentare con il maggior numero di cambi è il senatore Gianni Marilotti che ha iniziato la legislatura nel Movimento 5 stelle, è poi passato in successione al gruppo misto, Per le Autonomie, Europeisti, di nuovo gruppo misto ed è approdato infine al Partito democratico totalizzando 5 cambi di casacca.
Tra gli altri parlamentari con 3 cambi di gruppo possiamo citare Mariarosaria Rossi, passata da Forza Italia al gruppo misto, poi al gruppo degli Europeisti ed infine con lo scioglimento di quest’ultimo di nuovo al misto. Percorso simile anche per Gregorio De Falco che però aveva iniziato la legislatura nel Movimento 5 stelle.

Che cosa è successo in passato
Veniamo adesso alla questione del primato. La soglia dei 415cambi di casacca” non è un “record”, come dichiarato da alcuni giornali.
Secondo i calcoli di Openpolis, nella Legislatura XVII (2013-2017) i cambi di gruppo sono stati 566; nella Legislatura XIII (1996-2001) 404; nella Legislatura XII (1994-1996) 301; e nella Legislatura XVI (2008-2013) 261, un numero quasi identico a quello dell’attuale. Se si guarda al dato dei parlamentari coinvolti nei cambi, l’attuale legislatura, con 280 tra deputati e senatori, sale però al secondo posto dal 1994 ad oggi, dietro ai 347 della scorsa legislatura (Grafico 1).

Come abbiamo scritto in passato, non è semplice fare un confronto con i dati dei primi decenni della Repubblica, non essendoci un database pubblicamente consultabile. È possibile comunque affermare, in base alle evidenze a disposizione, che i numeri sui cambi di gruppo parlamentare nella Prima Repubblica erano decisamente più bassi rispetto a quelli raggiunti negli ultimi 30 anni. Prendendo in considerazione i dati della Camera, per esempio, si scopre che il picco del trasformismo si è toccato durante la Legislatura IV (1963-1968), con 135 cambi tra i deputati, un dato già inferiore rispetto a quello raggiunto fino ad oggi in questa legislatura.

Oggi ci sarebbe una grande occasione per riformare i regolamenti parlamentari, resa obbligatoria dalla riduzione del numero di parlamentari (si tratta della riforma parlamentare che riduce da 945 a 600 i parlamentari e che entrerà in vigore dalla nuova legislatura e che dovrà, per forza di cose, rimodulare almeno il numero e la consistenza dei gruppi parlamentari).


Il cuore di queste proposte di modifica, mantenendo in vita la previsione dell’articolo 67 della Costituzione, è che si vuole far cessare questa dinamica, questo trasformismo parlamentare, questa pratica di mettersi quasi all’asta che ha reso questo nostro Parlamento una istituzione a cui cittadini guardano con occhi sfiduciati e non sanno più nemmeno a quale gruppo appartiene un parlamentare.


Ora, sul punto conviene intendersi. Il moloch è l’articolo 67 della Costituzione, l’ormai arcinoto principio del parlamentare eletto “senza vincolo di mandato”. Un moloch che viene dritto dritto dalla storia del parlamentarismo occidentale e, in particolare, di quello della democrazia più antica del mondo, quella della Gran Bretagna. Fino a metà del’700, infatti, i parlamentari ce l’avevano eccome, il ‘vincolo di mandato’. Rispondevano, cioè, a chi li aveva eletti: in genere, si trattava di nobili, borghesi, comitati di affari e interessi costituiti, anche perché il diritto di voto era limitato (veniva attribuito, di norma, per censo e istruzione).
Eppure, tutte le democrazie occidentali, dalla Rivoluzione francese in poi, hanno aderito al sacro principio del “senza vincolo di mandato”. In buona sostanza, il parlamentare deve essere, e sentirsi, “libero” di esprimere opinioni, voti e posizioni politiche a prescindere da chi lo elegge. Altrimenti è “limitato”, nella coscienza e nell’agire, e diventa, cioè, “vincolato” a qualcuno.
Il principio, peraltro, andava poco a genio prima ai partiti socialisti e, poi, soprattutto, ai partiti comunisti che mettevano sempre “prima” gli interessi, indefettibili, del loro Partito e/o organizzazione rivoluzionaria rispetto ai diritti del parlamentare, suscettibile alle mollezze “borghesi” del “parlamentarismo democratico”, e i cui destini volevano che “dipendessero”, sempre e di fatto, dalle decisioni prese dal Partito. Non a caso, il principio del “senza vincolo di mandato”, nelle “democrazie” dell’Est – quelle dell’Urss e dei suoi paesi satelliti, le cd. “democrazie popolari” – non c’era come non figura nella Repubblica popolare cinese e simili (Vietnam, Corea, Cuba).
Persino durante i lavori dell’Assemblea costituente vi fu chi, come il Pci, voleva mettere in discussione il principio, trovando qualche sponda nella Dc, ma il pensiero liberale s’impose.


Negli ultimi anni chi ha cercato di intaccare il principio del “senza vincolo di mandato” è stato proprio il Movimento 5 stelle che, nel suo programma originario, ne chiedeva l’abolizione in nome del rapporto “fiduciario” tra “portavoce” eletti dal popolo e popolo-militanti elettori.


La proposta che si può fare, in realtà, è molto ampia e tocca molti e diversi aspetti della vita parlamentare e attuazione della Costituzione (Valorizzare le iniziative legislative popolari e dei Consigli regionali; Stabilire tempi certi per i voti del Parlamento; Vietare maxi-emendamenti eterogenei; Semplificare e razionalizzare numerosi atti e strumenti; voto di fiducia, atti ispettivi, odg, etc.), alcuni dei quali richiederebbero, peraltro, modifiche di rango costituzionale (quindi con procedura aggravata e doppia lettura conforme da parte delle Camere), tranne nella parte della modifica dei Regolamenti che, essendo un interna corporis delle Camere, vengono approvate di concerto tra i gruppi.


In sintesi, la proposta sulla modifica dei Regolamenti vuole: limitare i cambi di casacca; valorizzare le iniziative legislative popolari e dei Consigli regionali; stabilire tempi certi per i voti del Parlamento; vietare maxi-emendamenti eterogenei; semplificare e razionalizzare numerosi atti e strumenti del lavoro parlamentare.
Nello specifico, eccone i punti fondamentali. Una riforma dei regolamenti Parlamentari è imposta dalla riduzione dei parlamentari, che rende necessario almeno rivedere quorum e soglie esistenti.
Le riforme dei Regolamenti parlamentari dovrebbero essere valutate in coordinamento tra le due Camere (a partire da numero e competenze delle Commissioni), così da evitare differenze irragionevoli tra i due diversi Regolamenti (come oggi, invece, è e per ora così restano).


Per limitare cambi di casacca, si può prevedere che i deputati debbano aderire al Gruppo corrispondente al partito o movimento politico sotto il cui simbolo sono stati eletti.
Durante la legislatura, i deputati non possono aderire ad un altro gruppo o al gruppo Misto. Se lasciano il proprio gruppo, diventano “deputati non iscritti” a nessuna componente, come già è, oggi, dentro il Parlamento europeo.
L’unica eccezione prevista è nei casi di scissioni. In quel caso, possono nascere nuovi Gruppi parlamentari, ma solo se composti da deputati provenienti da un unico Gruppo parlamentare (in un numero minimo), che rappresentano una forza organizzata nel Paese (e con simbolo depositato alle precedenti elezioni politiche, come è già ora).
I deputati che abbandonano il proprio Gruppo parlamentare decadono dalle eventuali cariche acquisite in quanto rappresentanti di quel Gruppo.
In pratica, il limite per fare gruppo potrebbe scendere da 20 deputati a 15 alla Camera e da 10 senatori a sette al Senato ma solo se ci si collega a un simbolo elettorale presentato alle elezioni, come oggi già è, in base al regolamento di palazzo Madama, per il Senato (Iv ha potuto fare gruppo solo grazie al ‘prestito’ del simbolo che gli è arrivato dal Psi di Nencini), mentre non è così alla Camera dei Deputati, dove si può formare un gruppo parlamentare nuovo a prescindere dalle liste presentate alle elezioni e dove, peraltro, i gruppi godono di speciali deroghe (LeU ha potuto costituire, in base a tale regola, solo così il suo gruppo, pur non raggiungendo i 20 deputati).

Si vuole ridare ai cittadini il senso della trasparenza e della pulizia della vita parlamentare. Non potrà più succedere quello che è successo in questa legislatura nella quale il gruppo Misto è diventato un paradiso a cui tendere. Va dato un colpo al trasformismo parlamentare, solo così si rafforza la democrazia. Va bloccata la logica del trasformismo che umilia la vita democratica.
Certo, il gruppo Misto è cresciuto in modo abnorme (alla Camera conta 65 deputati e risulta essere il quinto gruppo, in termini numerici, mentre, al Senato, oggi, è il quarto gruppo per composizione, con 46 senatori, superiore persino ai 38 del gruppo del Pd), si possono, quindi, sicuramente trovare i correttivi giusti, ed equilibrati, per penalizzare, senza abolirlo del tutto il Misto (togliere il diritto ai finanziamenti, al tempo di parola in Aula, al diritto di tribuna, alle corsie preferenziali per presentare proposte di legge e atti ispettivi).

Ma che senso ha parlare di vincolo di mandato quando i membri del Parlamento sono nominati dai partiti? Insomma, la natura rappresentativa del nostro sistema è già in crisi e con essa il vincolo di mandato.

Se le cose stanno in questi termini, allora perché non optare semplicemente per la democrazia diretta considerando ormai obsoleta quella rappresentativa? Secondo alcuni autori la rivoluzione provocata dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione ha posto in crisi in modo irreversibile il paradigma della rappresentanza. Non vi è dubbio che la rete con la sua rapidità, con i suoi flussi d’informazione, con il suo carattere aperto, sia in grado di assicurare che le decisioni politiche si formino dal basso e orizzontalmente. In questo modo i cittadini possono partecipare direttamente alla vita politica del loro paese e le decisioni possono essere prese con  voto elettronico dopo una discussione pubblica che attraverso la rete li può in linea di principio coinvolgere tutti.

Nessun commento

Lascia un commento