Nocchie e nocchieti
Posso dire di essere cresciuto in mezzo ai noccioli e alle nocciole (nocchie in dialetto carbugnanese), come del resto nel mio paese di Carbognano molti altri della mia generazione. Tutta la mia infanzia e parte della giovinezza hanno avuto a che fare con questa pianta e i suoi frutti o meglio con il reddito aggiuntivo che in famiglia si poteva ricavare dalla loro vendita.
Preciso che parlo di quella pianta alta circa 4-5 metri che va sotto il nome scientifico di Corylus avellana, che nel nome del genere ricorda Avella, antico centro irpino dove la pianta domina il paesaggio e l’agricoltura da molti secoli, come nel mio paese, e invece Corylus ricorda la forma dell’involucro che ricopre i frutti (dal greco kòrys, elmo).
Non diversamente è stato ed è per le popolazioni dell’area dei monti Cimini nella quale i noccioleti caratterizzano il paesaggio e dominano la natura. Il nocciolo ha costituito a lungo per i carbognanesi fonte di ricchezza ma anche un limite e causa dell’impoverimento e dello sradicamento della gente da questi luoghi, destinata così a viaggiare per il mondo. Destino ed effetti delle monocolture.
Quello della raccolta prima, strappandole dai rami con tutta la buccia, e della vendita poi delle nocciole era per il paese e per tutte le persone il momento più importante dell’anno. Tant’è che verso il 10 o al massimo il 15 di agosto, il giorno della “Madonna di mezzo agosto”, iniziava la raccolta.
Il paese si svuotava e le campagne, che un tempo brulicavano di contadini che ci vivevano, si riempivano di tanta altra gente. Era l’attività più importante, non solo per quelli come noi, che avevano un po’ di terra, ma anche per coloro che di terra ne avevano tanta e soprattutto per i molti che invece di terra non ne avevano affatto.
Nei giorni precedenti si preparavano le balle di iuta, o nuove o quelle vecchie dopo un accurato controllo e, se era necessario, si mettevano le toppe a quelle che durante l’inverno avevano ricevuto la visita dei sorci; si preparavano i “sinali” e si comperavano delle matassine di corda per allacciare questi ultimi intorno alla vita.
Le “giornate” che piccoli e grandi proprietari richiedevano in quelle tre o quattro settimane al massimo di grande impegno, costituivano davvero, per quelli che non avevano possedimenti, nelle annate difficili la differenza fra la miseria e la forzata emigrazione e un minimo di dignitosa, se pur povera, permanenza in paese.
Ho fatto in tempo a vedere, giusto negli anni della mia infanzia, le ultime persone che andavano nei noccioleti ormai silenziosi a capezzà: a fatica trovavano ancora qualcosa qua e là sul terreno ben ripulito dall’occhio attento dei proprietari o del mezzadro, eppure, anche se andare a capezzà voleva dire svelare agli altri tutta la propria miseria, provavano lo stesso a racimolare qualche chilo di nocchie in quelle loro lunghe giornate.
Naturalmente, per me che ero un bambino, la cosapevolezza dei risvolti sociali della raccolta (i braccianti trascorrono dieci-dodici ore al giorno abbarbicati sui declivi a riempire le balle di nocchie) era ancora assai lontana.
Per me le nocciole avevano ben altro significato, quasi esclusivamente ludico, o tutt’al più alimentare, per via del loro uso come snack ogni qual volta mi veniva voglia di mettere qualcosa in bocca – se ne trovavano ovunque – e soprattutto per via del croccante o di qualche altro ottimo dolcetto a base di nocciole come tozzetti, cazzotti o verginelle che mia madre preparava.
Comunque dovevo avere solo qualche anno quando cominciai ad avere sentore che c’era un tempo normale per stare a casa in paese e c’era un tempo per andare in campagna “a ppia’ su ‘e nocchie”, più limitato e che arrivava ogni anno quando il caldo pesante aveva già caratterizzato le giornate. E che quel tempo finiva sempre con la vigilia della festa di San Matteo a Fabrica di Roma, un paese distante tre chilometri da Carbognano, quando si tornava alla vita normale di sempre del paese, agli amichetti e ai giochi nella strada vicino casa, e poi, qualche anno dopo, a scuola.
Venne poi il momento in cui fu confezionato per me un apposito grembiule (o sinale liscio) per cogliere le nocchie, del tutto simile a quello che usavano gli altri, con lo spago in alto su entrambi i lati, così da poterlo legare alla vita – dopo essere passato dietro la schiena – sul davanti con una ròtela de nocchie, per essere saldo e non sciogliersi e cominciai la mia carriera di raccoglitore in cambio di una bella mancetta. Si veniva così a formare un ampio contenitore abbastanza capiente che, una volta riempito, era una bella “sinalata de nocchie”, che si vuotava nella balla. Questo sistema di raccolta è stato in voga fino alla fine degli anni ’80 del secolo scorso.
Al mattino l’intera famiglia saltava giù dal letto quando era ancora buio. Si doveva preparare la colazione e il pranzo, governava il maiale e, se ce n’erano, i polli e i conigli, mettere il basto al somaro oppure attaccare l’animale al carretto, mettere nel tascapane con un po’ di pane e companatico, caricare le balle vuote e andare verso una fontana pubblica per riempire qualche “barlozzo” (contenitore in legno) di acqua. Passare infine in cantina per attingere anche qui un altro “barlozzetto” di vino fresco e poi si poteva andare.
La giornata lavorativa cominciava quindi molto presto e si concludeva quasi al tramonto. Non si consultava l’orologio, anche perché erano pochi a possederlo e chi ce l’aveva lo teneva ben nascosto nel comò, pronto per essere mostrato in qualche festa o nelle grandi occasioni. Per sapere quando era ora di fare colazione, di pranzare o di smettere di lavorare, bastava guardare il sole: i più anziani ed attenti, a volte, potevano sbagliare al massimo di cinque minuti.
I frugali pasti venivano consumati, quando c’erano, all’ombra di qualche grande quercia o castagno o, meglio, lungo le rive ombreggiate e fresche dei fossi. Questi ultimi avevano ancora tutti l’acqua limpida e potabile; tutti la bevevano e non è successo mai niente a nessuno; in essa si metteva a mollo il pane per preparare ’a panzanella.
La raccolta delle “nocchie co’ tutta ‘a coccia” che le racchiudeva, veniva fatta strappando dai rami i frutti ancora freschi. Le donne, i ragazzi, e gli anziani, in piedi intorno alla pianta, mettevano nei sinali i frutti che staccavano dai rami fino all’altezza delle braccia alzate; i giovanotti, più agili, coglievano le nocciole arrampicandosi sulle scale di legno appoggiate ai grandi rami, che, essendo troppo rigidi ed alti, non era possibile piegare fino a terra; gli uomini più alti, aiutandosi con un grosso uncino di legno, ricavato di solito da qualche ramo che si era spezzato in precedenza, agganciavano alla cima i rami più giovani e flessibili ma troppo alti e li piegavano verso terra fino ad altezza d’uomo gridando: “Forza un po’… Sotto a ‘sta puntaaaaaa…che è carica de rotele” Era l’invito a tutti gli altri raccoglitori a farsi sotto per cogliere tutte le nocciole, prima che il ramo venisse sganciato dall’uncino lasciandolo libero verso l’alto per tornare a riprendere la sua posizione originaria.
Per far si che le nocciole venissero raccolte da tutta la pianta, questa veniva presa a giro, cioè compiendo un giro completo intorno ad essa e si coglievano tutti i rami, uno alla volta, prima di passare ad un’altra pianta. I frutti cresciuti anche nei punti più nascosti e riuniti in rotele, da uno, due, tre e più nocciole (vaga), venivano cercati stringendo e facendo strisciare tra ambedue le mani i ramoscelli ad uno ad uno, fino a trovare a tastò tutte “e vaga”. Tuttavia alcune nocciole sfuggivano sempre ai raccoglitori, anche ai più abili ed attenti e sarebbero state, di lì a qualche giorno, preda dei capezzaroli, come sopra riportato.
Cogliere le nocciole dalle piante era un lavoro che a molti non piaceva per vari motivi. Al mattino, appena si iniziava, le foglie erano grondanti di guazza, per cui ci si bagnava da sopra; il terreno, spesso coperto di erba alta, era anch’esso grondante e perciò ci si bagnava anche da sotto. Quando dopo la colazione si riprendeva il lavoro, la guazza non c’era più, c’era però il sole che picchiava e si cominciava a sudare. Dai rami e dai ramoscelli che venivano abbassati e strisciati ad uno ad uno tra le mani, si distaccavano diversi animaletti (‘e formiche pizzicarelle, ‘e puzzole, i sartapicchj, ragnetti vari, per non parlare infine di verdi lucertoline), pezzetti di foglie verdi e secche, piccoli fuscelli, polvere in quantità; il tutto finiva tra i capelli, negli occhi, nella bocca, sulla pelle, umida di sudore, della schiena e del petto, causando alquanto fastidio. C’è ancora da aggiungere che bisognava stare tutto il giorno in piedi e con le braccia rivolte verso l’alto sia per trattenere i rami piegati a terra, che per strappare le nocciole; da ultimo, quando se ne erano raccolte abbastanza e il sinale era pieno, il suo peso gravava sui fianchi ai quali le corde lo tenevano legato.
Da ciò, non si deve però dedurre che “annà a coglie ‘e nocchie” fosse una tortura, anzi, c’erano anche aspetti positivi.
Si lavorava riunendosi in gruppi di famiglie o di amici che si aiutavano a vicenda nel raccogliere il prodotto, andando alternativamente una volta nel podere di uno e una volta in quello dell’altro. I gruppi perciò erano molto variegati sia riguardo al sesso che all’età.
C’erano poi, come in precedenza menzionato, le squadre di operai che andavano a giornata, con i proprietari di grandi noccioleti. Più il gruppo era numeroso e più la giornata trascorreva rapidamente e si sentiva di meno la fatica. C’era chi raccontava barzellette, chi rievocava fatti tragici o buffi avvenuti in passato, chi faceva scherzi e chi ascoltava soltanto e si divertiva con ciò che altri dicevano. Una cosa però accomunava tutti e rendeva tutti partecipi: le canzoni eseguite in coro. C’era chi cominciava la strofa e faceva l’assolo, chi faceva il controcanto, chi, la maggior parte, faceva il coro e cantava soltanto il ritornello.
Da un versante all’altro dei nocchieti, si ingaggiava a volte una vera e propria gara a distanza, tra squadre di nocchiaroli, a chi cantava meglio o conosceva le canzoni più belle o sapeva improvvisare gli stornelli più spiritosi, maliziosi ed anche un po’ spinti.
Gli unici che quasi mai o raramente prendevano parte ai cori erano i padroni e i loro caporali, in quanto dediti a sorvegliare il lavoro degli operai; legavano all’imboccatura le balle di nocciole piene; tenevano sotto controllo, a vista, quelle riempite durante la giornata che stavano sparse per tutto il nocchieto; dicevano quando era ora di andare a mangiare, di tornare a lavorare o di smettere; passavano ogni tanto tra gli operai con i “barlozzi de acquato” per far fare una bevuta ristoratrice, rigorosamente “a gargarella” (ingerendo il liquido direttamente senza toccare il contenitore con la bocca) grazie all’ausilio di una foglia di nocchia arrotolata a mo’ di imbuto nel buco del barlozzo una volta tolto il tappo di sughero (o sutero); vigilavano intorno ai confini del loro terreno affinché non si avvicinassero o vi entrassero prima del tempo le persone che andavano a capezzà.
Le balle di nocchie fresche, cioè colte dalle piante verso la metà di agosto, avevano destinazioni diverse a seconda delle abitudini e delle esigenze dei proprietari.
Alcuni, giorno per giorno, quando al tramonto tornavano dalla campagna, le scaricavano per venderle subito nei punti di raccolta dei commercianti che si servivano dei mediatori locali (i sensali). Questi intermediari, che usavano come centri di raccolta cantine e magazzini, ogni giorno fissavano il prezzo al quintale e pagavano quasi subito il prodotto conferito.
Altri produttori, ogni sera, vuotavano le balle di nocciole raccolte nella giornata, al fresco delle proprie cantine ed aspettavano la fine della raccolta per decidere se venderle in un’unica partita se il prezzo era di loro gradimento, o lavorarle in proprio, cioè essiccarle al sole.
Altri invece, ed erano quelli che ne producevano parecchi quintali o non avevano bisogno di “denaro fresco” per andare avanti, ancor prima della raccolta decidevano di essiccare le nocciole per venderle in un secondo momento, quando magari il mercato era più favorevole, realizzando così un ricavo maggiore.
Questi ultimi però per mettere in atto questa soluzione, avevano bisogno di uno spazio abbastanza esteso (l’ara mattonata) per spandere al sole e lavorare, fino all’essiccazione, le nocciole.
Dovevano approntare tutta l’attrezzatura necessaria: molte balle, rastrelli di legno, graticci e soprattutto predisporre un riparo per alloggiare gli addetti all’aia (ara), sia durante la notte che nelle eventuali giornate di tempo brutto: un casale, una grotta, una stalla o una ampia e solida capanna, a prova di pioggia, con le pareti ed il tetto costruiti a regola d’arte, con le stoppie del grano o con il fusto delle piante di granturco.
Sistemato il frutto sull’ara, si lasciava appassire al sole per qualche giorno, poi pian piano si batteva con un rastrello in modo da far uscire le nocciole dalle bucce, le quali venivano eliminate con i denti del rastrello e sistemate in un angolo dell’ara, quindi ripassate a mano dalle nonne per recuperare qualche nocciola rimasta all’interno.
Liallara
A cogghia e nocchie tutti quanti se ‘nnava,
pe vedelle belle e spase a sera, liallara.
Ce se rrampicava summezzo i scapicolli,
sgriciànno i ginocchi lippe i rodi verdi,
finchè nun afferravi a ròtela de nocchia.
E sulle fronne sentivi fischiare o peteo,
e te potevi ritrovà su o petto,
co e zampe tese un insetto stecco.
Che cò l’anni passati a ‘nvelenà,
a steso ritte e cianche, poveretto.
Era festa sotto e fronne ogni anno,
nun c’era ne a iacuzzi e manco o bagno,
ma quanno era l’ora de fa ‘n bisogno
te dovevi rimedià du fogghie de castagno…
A cogghia e nocchie sia le donne che l’ommeni
ereno de a stessa ugual ‘mportanza.
E co i sinali legati e chiamati parannanzi,
femmine e maschi pareveno preni in gravidanza.
A cerchio stesi tutti se pranzava,
co accanto o fiasco, poggiato a un pedicò.
Pe mantenello fresco la balla se ‘zzuppava,
e sotto o ceraso o sotto a ‘n fico
nun ce ‘vvanzava de vino manco un dito.
Intanto se sperava de trovà
che cosa de bono dentro a catana,
un pezzo de cacio coi denti da rosicà
e rara era nella frutta la banana.
Da magnà era sempre quella
o pà co o pummidoro o a panzanella
a icce bè c’era pure o pammolle
co e cove de baccalà e du cipolle.
A fame era tanta, a gioventù c’era
che se feniva da magnà e da beva,
i figghi ereno tanti a quelli tempi
che ce leccammo pure a nzalatiera.
E megghio de na poltrona, era de ghiuta a balla,
pure se che ròtela te puncicava culo e palla.
Sotto e fogghie ‘nfilavi la capoccia,
co o parannanzi che era personale,
do mettevi e ròtele de nocchia,
pe ghiempicce a balla su o pianale.
E ‘pprofittavi a pollo della fronna
con molta grazia e con semplice premura,
munito de roncio facevi a potatura
finchè che ramo stacchiava l’andatura.
E verso sera co l’Apetto pieno,
stracchi de braccia molle se rientrava,
ma te sentivi dell’abbondanza fiero,
quanno spannevi le nocchie lippe l’ara.
C’ereno altri ritmi a quelli tempi,
pure du balle pulite ce facevano contenti.
E co laristello battevi le ròtele secche,
pè raggionà doppo in piazza co Giggi e co Peppe.
Co laristello e mucchiando co la pala,
compariveno pure e sorche liallara.
E pure se currevi pe chiappalla una,
co o vago scappava e sogghignava.
Ma se sa, nun sarà tutto come prima,
poi ‘rrivarono a nuvola co a cimina.
Ma non dimenticheremo mai quelli tempi,
che tanto ce ‘nsegnarono a strigne i denti.
(by Gibo)
Il progressivo spopolamento delle campagne e il conseguente spostamento verso le aree urbane ha caratterizzato tutto il secolo scorso. La gente -come la mia famiglia- è andata via dai paesi per trasferirsi in città alla ricerca di nuove forme di reddito perché, come diceva Weber, “la città rende liberi”.
In alcune zone del Nord e del Centro Italia sin dalla fine del secolo scorso si era verificato un certo sviluppo industriale che è andato aumentando nei primi decenni del ‘900 quando tuttavia una notevole percentuale di popolazione , il 46 %, restava impegnata anche nel settore agricolo.
Con gli anni ’50 avviene, nella nostra economia, un mutamento di rotta e la politica e i finanziamenti si rivolgono prevalentemente all’industria e al terziario che diventano i settori trainanti del paese.
Proprio negli anni ’50 e ’60 decine di migliaia di contadini italiani abbandonano la terra per riversarsi nelle industrie delle città italiane o all’estero.
La campagna diventa il luogo da cui fuggire perché il lavoro era duro, scarsi i risultati, grandi i disagi, eccessiva la fatica, con il conseguente abbandono dei campi, dei poderi, che per secoli erano stati l’unico sostentamento delle generazioni che ci hanno preceduto.
Oggi viviamo un’epoca particolare: quella che segna la fine del progressivo abbandono dei campi che si è verificato negli ultimi sessant’anni.
I giovani riscoprono la campagna e la terra fonte di genuinità di cibi, di salubrità di vita, di salute fisica e psicologica.
Negli ultimi anni, inoltre , molte cose sono cambiate e grazie ai nuovi mezzi e vie di comunicazione, alla televisione, al potenziamento di alcuni servizi, l’isolamento non è più quello di una volta, e questo favorisce quindi il ritorno alla campagna.
Dall’età di sette-otto anni a Carbognano ci trascorrevo solo le estati con i miei nonni. Una volta finita la scuola, i miei genitori mi portavano “al paese” e mi ci lasciavano per tutta l’estate; loro venivano per i fine settimana da Roma dove ci eravamo trasferiti. Il soggiorno durava tre mesi, un tempo che allora mi sembrava indefinito. Tre mesi costruiti su solide routine tra le quali però esistevano notevoli margini di tempo e libertà in cui sperimentare rumori di una campagna antica, fatta di campi da scoprire, di ricognizioni e scorribande.
Cominciai ad accorgermi della fatica dei miei e non solo per la raccolta delle nocciole, ma anche per quella delle olive e delle castagne, quando ormai ero grandicello e loro sulla strada per diventare anziani. Confesso quindi di non aver mai provato seriamente il peso delle nocciole, se non per l’aiuto che mi capitava di dare in qualche momento, per il riempimento delle balle o per il trasporto di quelle appena iniziate e ancora da riempire completamente (i pedecimi) o per altre faccende che la cura delle nocciole richiedeva prima della vendita.
Griglia o crivello a fili di ferro, di forma trapezoidale, tenuta inclinata su due cavalletti che serve a separare terra, sassi, rametti e foglie dalle nocchie
Dai giovani polloni (frustelò) del nocciolo ricavavo per divertimento i migliori archi possibili, tanto quel giovane legno era flessibile e robusto. Scegliendo bene il pollone e disponendo di un buon filo da tendere si ricavavano magnifici archi, da fare invidia a Robin Hood, almeno per la fantasia di noi piccoli arcieri. Anche le frecce necessarie si potevano ottenere in gran quantità da quei frustelini che tanto nel periodo invernale e primaverile vengono tolti per non indebolire le piante e quanto a bersagli non c’era che da guardarsi in giro.
Un bel compiacimento derivava dal ritrovamento di rari esemplari di nocciole e dalla loro collezione. Nocciole stranissime, che erano formate di due, tre o quattro normali unite insieme, con il risultano della deformazione dell’epicarpo, insolitamente allungato.
Con il trascorrere degli anni ho conservato il piacere di mangiare le tenere nocciole locali, immancabilmente definite le “più saporite e nutrienti del mondo” e l’ho trasmesso ai miei figli, seppure con la raccomandazione di non fare proprio come me, che ho sempre usato i denti per schiacciarle, fino a quando per distrazione non ne ho appoggiato una su un dente otturato, ho spinto ed ho combinato un vero e costosissimo disastro per quello stesso dente e per gli altri vicini.
Il Martinelli in “Carbognano illustrato” mette in risalto che la coltura del nocciolo risale sin dal “[…] 1412 circa, mentre prima esisteva come pianta arbustiva da sottobosco e che tuttora lo troviamo in tale stato nei boschi specialmente di castagno”. Nel 1513 pare che il consumo di “nocchie” rallegrasse la mensa del Papa Leone X (Storia del Carnevale Romano, Clementi). Nel catasto del 1870 risultano già censiti in quell’anno, a Caprarola, alcune decine di ettari di noccioleto, sotto la dizione di “Bosco di nocchie“.
La grande diffusione della pianta si è avverata all’inizio dello scorso secolo e precisamente dal 1900 al 1915, quando cioè in Italia si susseguirono le crisi vinicole; appunto per rimediare a tali crisi, i proprietari di vigneti sostituirono la vite col nocciolo in quanto il frutto di quest’ultimo cominciò allora ad essere commerciato su vasta scala ed utilizzato nelle industrie.
Nel 1907 le nocchie si vendono a lire 1,25 la decina (di libbre), ossia scudi 25 il migliaio (di libbre), o, per capirsi, lire 37 al quintale. Venti anni dopo si arriva alle dorate cifre di lire 1.000 al quintale.
Dati tratti da “Il Nocciuolo nella zona del Cimino”, di Giuseppe Nizi. Anno 1949.
Nel 1929 la superficie investita a nocciolo è di 2.463 ha in coltura specializzata e 1.300 ha in coltura promiscua. Oggi la superficie investita a nocciolo sfiora i 25.000 ha e coinvolge oltre 4.000 operatori. Una tale estensione ha fatto sì che alcuni Comuni su 1.800 ha di territorio ne hanno 1.600 piantumati a nocciolo.
I noccioleti venivano generalmente condotti in economia diretta; più raramente in affitto o messi all’asta i raccolti. Per la raccolta spesso venivano dati a quarteria e cioè un quarto di prodotto andava a chi raccoglieva e ¾ andava al proprietario.
Oggi anche la tecnica di raccolta ha subito una evoluzione; ora la nocciola viene raccolta a terra e quindi una permanenza prolungata sul suolo può compromettere totalmente le sue caratteristiche di salubrità. Negli ultimi anni un notevole sforzo è stato compiuto dai produttori per ridurre al minimo tale permanenza e anche sulle tecniche di primo trattamento e conservazione si è assistito ad una evoluzione continua dei sistemi. Si è passato dall’essiccazione del prodotto utilizzando il calore solare, tanto che non era raro vedere ampie distese di nocciole “spase” sulle aie (li all’ara) e sulle piazze ad asciugare, all’utilizzo di essiccatoi aziendali e/o cooperativi con il riutilizzo dei gusci come combustibile e alla conservazione del prodotto all’interno di magazzini e/o silos a temperatura controllata o in celle per il prodotto sgusciato.
Raccolta nocciole
Caduto ormai in disuso, a causa della meccanizzazione, anche il vasto patrimonio di canti di lavoro e di stornelli intonati un tempo dalle raccoglitrici di nocciole nei Cimini o di olive nel Caninese e nel Vetrallese. Allo stesso modo si è andato impoverendo sempre più l’antico patrimonio di canti epico-lirici che riecheggiavano nel vicinato, quando le donne accudivano ai lavori domestici, o che animavano le veglie, quando si lavorava in gruppo a sfogliare le pannocchie di granturco o a capare le nocciole. La stessa sorte di fatale indebolimento sembra toccare al tesoro di novellette, leggende, favole, indovinelli, filastrocche infantili. L’adozione di altri stili di vita e la prevalente logica consumistica hanno portato anche alla scomparsa del bettolino o dell’osteria, luogo maschile di creazione e trasmissione di prodotti orali (aneddoti, blasoni popolari, facezie, satire), ove avveniva tra l’altro il confronto dei poeti a braccio.
2021-Rai3, un servizio sulla Tuscia
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Le partite di nocciola vengono solitamente quotate sulla base del “punto resa”.
Il “punto resa” è per tradizione, sia carbognanese che internazionale, la base di calcolo per determinare il prezzo di una partita di nocciole.
Il “punto resa” di una partita di nocciole è ogni singolo punto e frazione di punto, arrotondato alla prima cifra decimale, della “Resa netta in percentuale”.
La “Resa netta in percentuale” viene determinata secondo la seguente procedura:
il Campione di riferimento è formato da 1.000g di nocciole in guscio, prelevate dalla partita soggetta alla verifica di resa, pulite da eventuali corpi estranei.
Operazioni:
• sgusciatura e separazione del frutto dai gusci per ottenere la “resa in frutto lorda” in grammi;
• dalla resa in frutto lorda così ottenuta viene sottratto l’avariato visibile (nocciole marce, ammuffite e/o verminate);
• dalla resa in frutto così ottenuta viene sottratto il “cimiciato visibile” (tutti i frutti danneggiati da puntura di insetto); il peso delle nocciole cimiciate visibili rapportate al peso iniziale del campione (1000g), determina la percentuale del difetto della partita e la sua collocazione in fascia;
• la resa in frutto così ottenuta viene tagliata per la verifica dell’avariato occulto; l’avariato occulto non viene sottratto alla resa in frutto per ottenere la “Resa netta” in grammi. Il peso delle nocciole avariate occulte rapportate al peso iniziale del campione (1000g), determina la percentuale del difetto della partita e la sua collocazione in fascia.
• la resa netta in grammi ottenuta viene rapportata al peso iniziale del campione (1000g) e determina la “Resa netta in percentuale”.
Il Prezzo Punto resa della nocciola, pubblicato dalla Commissione camerale per la rilevazione dei prezzi, moltiplicato per i punti resa della partita, determina il prezzo.
A seconda delle percentuali di prodotto “Cimiciato visibile” e “Avariato occulto” riscontrate sulla partita, è applicata una tabella prezzi suddivisa in tre fasce:
• la determinazione delle percentuali di “Cimiciato visibile” e “Avariato occulto” ammesse da ogni singola fascia è a cura della Commissione prezzi a seconda della situazione agrotecnica dell’annata corilicola;
• la determinazione della decurtazione di prezzo relativa alla 2^ e 3^ fascia è a cura della Commissione prezzi a seconda dell’andamento della stagione corilicola;
• il prezzo unico pubblicato dalla Camera di commercio è riferito a nocciole di 1^ fascia.
La pubblicazione del prezzo delle nocciole in guscio viene espressa in euro per “Punto Resa”. Il prezzo pubblicato è comprensivo di IVA al 4%.
——–
Esempio:
Campione: 1.000g, frutto sgusciato: 455g , avariato visibile: 7g
Frutto sgusciato al netto dall’avariato visibile: 448g , cimiciato visibile – determina la fascia: 22g
Resa netta in grammi: 426g , resa netta in percentuale: 42.6
Avariato occulto (al taglio) determina la Fascia: 4g
Le nocciole raccolte nel viterbese si vendono tostate, come granella per i dolciumi, pasta per i gelati. Si esportano in decine di paesi. Ma un acquirente spicca su tutti gli altri: la Ferrero. Tuttavia se non ci fossero i frutti turchi, il gruppo piemontese avrebbe difficoltà a produrre le sue delizie.
Perché in effetti oggi di nocciole in Italia non se ne producono abbastanza per coprire il fabbisogno dell’industria: Ferrero compra in Italia, quindi, ma anche all’estero, in particolare in Turchia che è il primo produttore globale con 700.000 ettari a fronte dei 70.000 coltivati in Italia.
Con i suoi 25 mila ettari la provincia di Viterbo è la principale area di produzione italiana di nocciole. È da tempo immemore che qui gli alberi sono presenti nelle aree di sottobosco: gli storici narrano che gli antichi romani bruciavano legno di nocciolo nei sacrifici al dio Giano e lo impiegavano per le torce augurali in occasione delle nozze.
Ma la produzione intensiva è cominciata negli anni cinquanta del secolo scorso ed è aumentata negli anni ottanta, quando è cresciuta la domanda dell’industria: in queste aree le rese sono alte, tra i venti e i trenta quintali a ettaro, il doppio o il triplo di quelle turche. I bassi costi di gestione e la possibilità di raccogliere a macchina rendono la coltivazione redditizia, soprattutto se paragonata ad altre colture. Quando va a produzione, dopo circa cinque anni, un ettaro di noccioleto può garantire un utile annuo fino a cinquemila euro, cifra tutt’altro che piccola nel comparto agricolo italiano.
Le nocciole come le mandorle sono frutti ricchi di vitamina E e sono una fonte di fitosteroli, un gruppo di sostanze ritenute importanti per la prevenzione delle malattie cardiovascolari. Le nocciole contengono, inoltre, grassi monoinsaturi in grado di abbassare il livello del colesterolo LDL e dei trigliceridi. Non va confusa con la nocciolina, termine con cui viene chiamata l’arachide.
Le nocciole coltivate nel Cimino erano e sono in ordine d’importanza:
- tonda gentile romana: ha frutto rotondo, facile da sgusciare meccanicamente, con pericarpo d’un bel marrone, scudetto d’inserzione d’un colore tendente al bianco con margini ben netti. Buon sapore delicato, tegumento (guscio) del seme assai sottile e quindi ottima resa alla sgusciatura. Sottile rivestimento che avvolge il seme, detto perisperma, facilmente asportabile dopo la tostatura. Matura dopo il 15 agosto.
- barrettò, detto anche nocchiò: i frutti sono molto voluminosi, tuttavia rendono meno alla sgusciatura, perché il pericarpo è molto più spesso che nella precedente varietà. Il frutto ha maturazione precoce e le foglie sono più pelose e vischiose al tatto. A Caprarola è detto nocchielò.
- nocchia lunga: è senza dubbio la migliore come sapore, frutti di grossezza media oblunga irregolare ma per la sua forma non può essere sgusciata a macchina e quindi anche industrialmente è inadatta. Resiste discretamente agli attacchi parassitari, specialmente contro il “cimiciato”, mentre è attaccata fortemente dal balanino. Pochissime piante si trovano nella zona sparse qua e là in mezzo a quelle di altre varietà.
Nocchia Gentile de Carbognano di Mario Liberati
Grazie alle condizioni climatiche, questa pianta prospera nel Bacino del Mediterraneo.
I maggiori produttori sono: Turchia, Italia, Stati Uniti d’America e Spagna.
La nocciola è comunemente annoverata fra la frutta secca, è di colore verdastro (inizialmente) e poi marroncino, con il proseguire del grado di maturazione. Il pericarpo è in parte ricoperto da un involucro fogliaceo a margine irregolare.
Il seme, posto all’interno, è commestibile ed è di consistenza croccante. Viene consumato sia allo stato fresco sia allo stato secco.
È molto ricco di lipidi (50-60% circa di grassi), di proteine (20%) e di acqua (11%). Questa composizione fa della nocciola un alimento calorico.
La nocciola è utilizzata principalmente nelle lavorazioni industriali, in quanto è il frutto che meglio si sposa con il cioccolato, sia al latte che fondente, in pasticceria, per la produzione di torroni, dolci e creme. Per la maggioranza degli impieghi viene sottoposta prima a tostatura.
Nei paesi di lingua tedesca la nocciola è utilizzata sotto forma di farina per la preparazione di un dolce tipico (simile ad una crostata, la Torta Linzer).
Molto ricercato anche il suo olio, che viene utilizzato dall’industria cosmetica o per uso alimentare, ma è molto costoso per le piccole quantità prodotte. La nocciola è inoltre ingrediente base per la produzione del frangelico, infuso liquoroso.
Al tempo della Roma antica si usava donare piante di Corylus avellana per augurare felicità. Ugualmente accadeva in Francia, dove la pianta veniva donata agli sposi come simbolo di fecondità.
Nella cultura e nella lingua anglosassone il termine equivalente, Hazel (inteso come “nocciolina”), è talvolta utilizzato come nome proprio o vezzeggiativo. Hazel è, ad esempio, intitolata una canzone del cantante Bob Dylan contenuta nell’album discografico del 1974 Planet Waves mentre Hazel Grove (Boschetto di nocciòle) è una cittadina nelle vicinanze di Manchester, nell’Inghilterra nord-occidentale.
Negli Stati Uniti Hazel è una città del Kentucky.
Curiosità: il simbolo del dio Esculapio – e degli odierni farmacisti – è un ramo di nocciolo con un serpente attorcigliato, dovuto agli innumerevoli usi in ambito medico del nocciolo. Alcuni ne esaltano le proprietà afrodisiache e, data l’abbondanza, lo somministrano in quantità anche al pollame d’allevamento per stimolare la riproduzione.
27 motivi per mangiare nocciole e stare in salute
Contiene un’elevata quantità di magnesio.
Fa bene alla salute delle ossa.
È buona per dolori muscolari e crampi. Rafforza l’immunità.
Protegge la salute cardiovascolare.
Benefica il sistema nervoso.
Aumenta la velocità e l’efficienza dei segnali elettrici con la vitamina B6 contenuta nella nocciola, che è un pieno di salute con gli elementi nutritivi che contiene.
Riduce al minimo il rischio di diabete.
Protegge la salute del cervello.
Fa sentire meglio la persona mentalmente e psicologicamente. Previene problemi come diarrea e costipazione.
Espelle le cellule nocive nel corpo.
Aiuta a bruciare rapidamente i grassi nel corpo.
Le nocciole sono una fonte di antiossidanti e riducono il rischio di cancro.
È stato osservato che elimina i fattori che causano lo sviluppo di cellule cancerose.
Le nocciole sono ricche di grassi utili e fibre alimentari.
Aiuta a prevenire il desiderio di mangiare eccessivamente.
Il consumo di nocciole fa bene all’anemia.
Inoltre, influenza la produzione di piastrine rosse nel sangue.
Rafforza il sistema immunitario
Abbassa il colesterolo.
La nocciola contenente acido oleico aumenta il livello di colesterolo buono
Previene l’invecchiamento.
La durezza dà sensualità.
Rafforza i follicoli piliferi.
Attiva gli ormoni della felicità.
È stato osservato che il consumo regolare di nocciole crude e fresche riduce il rischio di infarto.
È stato osservato un miglioramento dell’intolleranza al glucosio quando i pazienti diabetici hanno aggiunto nocciole alla loro dieta quotidiana.
La nocciola è un alimento fibroso. La fibra non è solo digeribile, ma elimina anche il rischio di diabete bilanciando lo zucchero nel sangue.
Per vedere anche i precedenti post del 12 settembre 2009 e del 3 ottobre 2013 cliccare rispettivamente i seguenti link:
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Nocciolando nel sud dell’Alto Lazio – A Carbognano i dolci con la tonda gentile