Assassinio di Benazir Bhutto

BHUTTO FUNERAL, PAKISTAN FU

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L’EMAIL DI BENAZIR AGLI AMERICANI: “SE MI UCCIDONO, LA COLPA E’ DI MUSHARRAF”
ANCHE AL QAEDA SCARICA OGNI RESPONSABILITA’ E METTE NEI GUAI MUSHARRAF
L’INDIA IN STATO DI ALLERTA: LUNGHE COLONNE MILITARI AL CONFINE COL PAKISTAN

L’INDIA IN STATO DI ALLERTA (MA NESSUNO LO SCRIVE)
I numerosi turisti italici che hanno deciso – come novelli Boldi & De Sica – di svacanzare il Natale in India hanno trovato una sorpresa lungo le malridotte strade del Rajasthan: oltre alle solite mucche birichine (sempre al centro della carreggiata), cammelli che amano zoccolare contromano, maiali neri timorosissimi dei clacson, ecco imbattersi in interminabili colonne di mezzi militari. (da dago report)


Niente truppe: ma camion logistici, con al seguito cannoni e altre armi a rotelle, in direzione del confine col Pakistan, e precisamente sulla strada che collega Jodphur con Jaisalmer, nel Great Thar Desert, a un tiro di schioppo dal confine la fu terra dei Bhutto. Intanto, “The Times of India” riporta la notizia che treni e bus in collegamento con il Pakistan sono stati cancellati dal governo.

– ANCHE AL QAEDA SCARICA OGNI RESPONSABILITA’ E METTE NEI GUAI MUSHARRAF”
Corriere.it – Il leader taleban Baitullah Mehsud, considerato il luogotenente di al Qaeda in Pakistan e ritenuto dal governo pakistano l’architetto dell’attentato che è costato la vita a Benazir Bhutto, nega ogni coinvolgimento nell’assassinio della ex premier. Lo riferisce un suo portavoce: «Lo nego fermamente. Il popolo tribale ha i suoi costumi, noi non attacchiamo le donne», ha detto il portavoce di Mehsud, Maulvi Omar, in una conversazione telefonica da una località sconosciuta. Ieri il governo pakistano aveva apertamente attribuito al leader taleban la responsabilità dell’uccisione di Benazir Bhutto giovedì a Rawalpindi.

COLPO ALLA TESTA – Benazir Bhutto è stata colpita alla testa da una pallottola, lo ha affermato oggi la sua portavoce assicurando di aver lavato il corpo della ex premier pakistana prima della sepoltura e quindi di averlo personalmente constatato. Il corpo della Bhutto, uccisa giovedì a Rawalpindi, non è stato sottoposto ad autopsia e ieri i portavoce ufficiali del governo avevano sostenuto che la morte è dovuta all’urto contro il tetto dell’automobile su cui l’ex premier si trovava al momento dell’attentato.

DIECIMILA IN PIAZZA CONTRO MUSHARRAF – Intanto circa 10 mila persone hanno partecipato ad un corteo di protesta sabato a Lahore, la principale città del Pakistan nord-orientale, scandendo slogan contro il presidente Pervez Musharraf e pregando per l’ex primo ministro Benazir Bhutto assassinata lo scorso giovedì a Rawalpindi.

– PAKISTAN «BENAZIR SEI VIVA, MUSHARRAF È MORTO»
Francesco Battistini per il Corriere della Sera

RAWALPINDI (Pakistan) – La cancellata del parco di Liaquat Bagh, dov’è morta giovedì la speranza del Pakistan, non è un luogo di lutto. Quel che resta sono quindici scarpe da uomo, due spaiate col tacco. Un guanto. Un velo insanguinato. Una cuffia nera con una scritta bianca, in arabo: «Scorta speciale di Benazir Bhutto».

Frantumi di finestrini, pezzi di retrovisori. Nessun segno sui muri, intatte le vetrine dei negozi. Non spunta un fiore, una candela, un biglietto. Non scende una lacrima. Lì si sono sentiti i tre spari, a trenta metri laggiù è stata trovata la testa del kamikaze. Nessuno fa foto coi telefonini, perché morti e bombe sono una faccenda quotidiana, nel Paese degli Uomini Puri. Restano solo uomini furiosi, tutt’intorno. Strade vuote di gente, piene di minacce. Bastoni che si agitano. Copertoni che bruciano. Le sassaiole, i lacrimogeni della polizia, le vie per Islamabad e per l’aeroporto bloccate. Baffi che vibrano rossi d’henné e di rabbia: «Musharraf assassino!». Generale, discòlpati. L’onda d’urlo è partita da Rawalpindi, davanti al General Hospital che ha ricoverato Benazir già morta, e ancora non si ferma.

Prima che il sole cali, all’ora della sepoltura, è il grido dei duecentomila disperati che a Larkana, tre ore d’auto più a sud, arrivano con bus e jeep da ogni provincia, fanno corteo per due ore e sette chilometri, attraversano i binari della ferrovia divelti nella notte, strappano dalla bara di legno chiaro il tricolore rossoverdenero del partito dei Bhutto e la scoperchiano, fanno nevicare petali bianchi sul sudario e infine accompagnano sottoterra la loro eroina con esclamativi diversi e uguali: «Benazir sei viva!», «Musharraf sei morto!».

L’addio alla Bhutto è un arrivederci al prossimo round. Nel mausoleo di marmo bianco del Sindh — la tomba del papà e dei due fratelli uccisi prima di Benazir, un sacrario simile a quello dei Gandhi in India o dei Rahman in Bangladesh —, la protesta copre le preghiere, cancella i singhiozzi dei tre figli. Il vedovo Asif, quello che chiamavano «mister 10 per cento» e costò a Benazir l’accusa di corruzione, chiede moderazione, «dateci il coraggio di sopportare questa perdita», lancia un segnale, «le elezioni si devono fare lo stesso, come deciso», e poi applaude quando qualcuno alza una promessa: «Non importa quanti Bhutto ammazzerete! Il nome dei Bhutto cala e risorge, come il sole e la luna! Un Bhutto spunterà sempre, da ogni cosa!».

Il governo non ha dichiarato lo stato d’emergenza, il suo premier ad interim assicura che l’8 gennaio si voterà lo stesso: ieri sono arrivati gli osservatori europei, ma non è detto che avranno da lavorare. Da Karachi a Hyderabad, da Islamabad al Kashmir, la campagna elettorale è cominciata con ventitré morti e un poliziotto linciato. Dalle parti della Moschea Rossa, oggi ridipinta di bianco e orfana della madrassa fondamentalista, demolita dal governo, agl’incroci bruciano manifesti e la polizia va di manganello.

I bersagli delle devastazioni dicono molto: venticinque banche, dieci stazioni ferroviarie, perché molte appartengono all’esercito ed è l’esercito, sono i soliti servizi dell’Isi i principali sospettati dalla piazza. C’è una mail postuma di Benazir, coi nomi e i cognomi di chi la voleva morta: un dirigente dell’Isi, il presidente della Corte dei conti, un ufficiale di polizia.

La leader dell’opposizione l’aveva spedita a Musharraf e contemporaneamente a un amico, Mark Siegel, annotando nella seconda versione che «se mi uccidono, parte della responsabilità sarà del presidente: il governo ha rifiutato di aumentarmi la scorta, dopo l’attentato del 16 ottobre ». Per placare la folla e il mondo, per rimbalzare i sospetti e le telefonate che gli arrivano da Gordon Brown e da Washington, Musharraf ha una carta da giocare: Al Qaeda.

Un portavoce del ministero dell’Interno, Javid Chima, con insolito tempismo si presenta in serata per mostrare un video con gli ultimi istanti, prima dell’attentato, e dire che il caso Bhutto è già risolto: l’hanno uccisa i qaedisti. Su Benazir non è stata fatta l’autopsia, aggiunge, però s’è capito che non è morta per proiettili o schegge (come s’era detto), ma perché l’esplosione le ha fatto sbattere la testa sul tetto dell’auto blindata;

a Islamabad sanno anche chi è il prossimo, sulla lista di Al Qaeda: l’ex premier Nawaz Sharif, probabile successore della Bhutto. Ostentata sicurezza. Voglia di chiudere la pratica. Però ieri l’Autobus della Pace, quello che il governo aveva pomposamente inaugurato per collegare Lahore all’India, è stato soppresso. Motivi di sicurezza. Più che un autobus, uno sgangherato tram da chiamare desiderio.

Il contrasto tra Islam e democrazia

di Magdi Allam

Ha ragione lo scrittore anglo-pachistano Hanif Kureishi nel sostenere che «l’islam non è compatibile con la democrazia». Certamente non l’islam dei terroristi di Al Qaeda che hanno appena rivendicato l’attentato suicida che ha posto fine alla vita di Benazir Bhutto. Neppure l’islam degli estremisti islamici che praticano il lavaggio di cervello a milioni di giovani nelle moschee e scuole coraniche, indottrinandoli alla guerra santa e inculcando la fede nel «martirio» islamico. Né infine l’islam moderato nella forma ma dittatoriale nella sostanza, sostenuto dall’Occidente solo per la paura che i terroristi e gli estremisti islamici prendano il potere.

Nell’intervista concessa a Francesca Marretta e pubblicata ieri su Liberazione, Kureishi spiega così la sua sfiducia assoluta: «Il Pakistan è stato formato come Stato democratico per i musulmani, ma gli islamisti non sono capaci di essere democratici, perché mettono la religione davanti a tutto. Islam e democrazia non sono compatibili. Per quanto mi riguarda, il Pakistan non doveva essere creato come Stato. Doveva restare parte dell’India. Musharraf resterà al potere perché gli Usa non permetteranno che il Pakistan diventi una sorta di Stato talebano ». I fatti gli danno ragione.

Se consideriamo gli Stati che si autodefiniscono «Repubblica islamica», quali il Pakistan, l’Iran, le Comore, Mauritania e Afghanistan, in aggiunta all’Arabia Saudita che ha adottato il Corano come Costituzione, ebbene nessuno di loro è democratico. Ma più in generale dei 56 Paesi membri dell’Organizzazione per la Conferenza islamica e che hanno una popolazione a maggioranza musulmana, nessuno rispetta pienamente i parametri della democrazia sostanziale così come è concepita e praticata in Occidente.
Nella gran parte dei casi la democrazia è trattata alla stregua di un rito formale, che si esaurisce nella messinscena delle regole del processo elettorale per legittimare il perpetuamento dei regimi autoritari al potere e violando comunque i diritti fondamentali della persona che sono l’essenza della democrazia sostanziale.

La storia moderna e contemporanea ci insegna che i Paesi musulmani si sono avvicinati in qualche modo all’esercizio della democrazia soltanto quando si sono apertamente ispirati a un modello complessivo di società e di civiltà occidentale, con la separazione sostanziale della sfera religiosa da quella secolare. Perché il nodo principale risiede appunto nella pretesa dell’integralismo e dell’estremismo islamico di definire religiosamente ogni minimo dettaglio del vissuto e della quotidianità delle persone. Alla base c’è la realtà di una religione che, in assenza di un unico referente spirituale, sin dai suoi esordi ha fatto leva sull’interpretazione soggettiva del testo sacro producendo una fede che è plurale ma non pluralista, proprio perché non c’è mai stata la democrazia sostanziata dal rispetto verso la moltitudine di comunità, sette, movimenti e partiti che spesso, singolarmente, rivendicano di essere i detentori dell’unico vero islam. Con il risultato che storicamente l’islam è conflittuale al suo interno prima di esserlo con il mondo esterno.
Ecco perché la radice del male è nell’intolleranza endogena all’islam che dal settimo secolo, quando tre dei primi quattro califfi che succedettero a Maometto furono assassinati da loro correligionari, vede a tutt’oggi i musulmani assumere i panni dei carnefici della maggioranza delle vittime musulmane. E proprio quanto sta accadendo in Pakistan conferma la natura aggressiva di questo terrorismo islamico che massacra principalmente gli stessi musulmani e che, contrariamente a un luogo comune diffuso, non è affatto la reazione alla guerra o all’occupazione di una potenza straniera.

Perfino i musulmani praticanti che beneficiano della democrazia in Occidente, compresi gli autoctoni convertiti all’islam, considerano la democrazia come uno strumento utile al radicamento del loro potere con il fine dichiarato o tacito di sostituirla appena possibile con la «shura», cioè un organismo consultivo, dove ai partecipanti è concesso soltanto definire le modalità attuative della sharia, la legge islamica.

Perché all’uomo non è permesso anteporre la propria legge a quella divina. Fede e ragione vengono ritenute incompatibili. E anche se di fatto non esiste una versione unica e condivisa della sharia, tutti gli integralisti e gli estremisti islamici sono però d’accordo nel rifiuto della democrazia sostanziale.

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