Uffizi – Una visita al museo come non l’avete mai fatta…

Si prosegue al primo piano…

SALE 46-55 – LE SALE BLU
L’itinerario prosegue al primo piano nelle sale blu, dalla 46 alla 55, dedicate nel 2011 agli artisti stranieri del ‘600 e ‘700. La maggior parte dei quadri, spesso di piccolo formato, sono opera di pittori olandesi e fiamminghi, che erano molto apprezzati dai Medici. Molte di queste opere vennero acquistate da Cosimo III durante il suo viaggio nelle Province Unite (odierna Olanda) nel 1668-69 ed erano opera dei così detti “pittori dal pennello fine”, data la precisione quasi da miniatura dei particolari delle scene, su tavola. Altre opere vennero portate a Firenze da Anna Maria Luisa de’ Medici Elettrice Palatina dalla Corte di Dusseldorf, quando rientrò in Toscana dopo la morte del marito Giovanni Guglielmo von Pfalz-Neuburg Wittelsbach nel 1717. Mentre i pittori olandesi dipingevano nature morte, scene d’interni o soggetti di genere, dato che la loro religione del cristianesimo riformato non ammetteva la rappresentazione delle scene sacre, le opere dei fiamminghi della collezione di Anna Maria Luisa, molto devota, sono soggetti religiosi.


Adamo ed Eva, Hans Baldung Grien-1520


SALA 56 – SI ARRIVA ALLE SALE ROSSE

Lasciate le sale blu si riprende l’itinerario nelle sale rosse, dove la 56 è dedicata alla scultura ellenistica, con opere provenienti dalle collezioni di Villa Medici a Roma, e le seguenti alla pittura fiorentina del Cinquecento. In questa sezione sono esposti molti ritratti, spesso di alta qualità, che tramandano la memoria delle fattezze di molti membri della famiglia Medici.


Sala 56 – Spinario – La statua ritrae un fanciullo nudo assiso su una roccia, intento a togliersi una spina dal piede, probabilmente conficcatasi mentre il ragazzo stava schiacciando l’uva in occasione della vendemmia. Era un motivo molto diffuso e noto nell’antichità, probabilmente creato in Grecia nel III secolo a.C.. Da lì giunse a Roma dove venne replicato per raffigurare Ascanio, figlio di Enea e, secondo il mito, progenitore della dinastia a cui appartennero Giulio Cesare e Augusto. Una curiosità: la prima volta che in epoca moderna si vide questa scultura fu attorno alla fine del XII secolo, a Roma: si trattava di una copia in bronzo, forse un originale (oggi conservato nei Musei Capitolini di Roma), scoperto per caso da un viaggiatore inglese. Fu da quel momento più volte replicato e divenne fonte di ispirazione anche di scultori moderni. Forse fu proprio la freschezza della scena, raffigurata con discreta eleganza, a fare del giovinetto indaffarato un motivo tanto interessante da replicare. Il nostro Spinario risale al I sec a.C.: lo sguardo intento rivolto al piede sofferente, i capelli che accarezzano il collo e la fronte, le forme del corpo delicatamente modellate a ritrarre un corpo di giovinetto con i muscoli tesi nel difficile compito di non provare dolore.


San Girolamo nel deserto, Giovanni Bellini-1480

SALA 61
Nella sala 61 si trova il Ritratto postumo di Cosimo il Vecchio, recante l’emblema del broncone, cioè del tronco tagliato di alloro da cui germoglia un nuovo ramo, alludente al nuovo Cosimo che dona nuovo vigore alla famiglia dopo l’estinzione dei discendenti del primo. Il dipinto è di Jacopo Carucci detto Il Pontormo, pittore molto attivo per la famiglia granducale. Nella stessa sala si trova il Ritratto di Maria Salviati, la madre di Cosimo I, sposa di Giovanni dalle Bande Nere.

Putto che suona, Rosso Fiorentino-1521

SALA 64
Nella sala 64 emergono i Ritratti di Bartolomeo Panciatichi e della moglie Lucrezia del Bronzino (1541-45). Accusati di aver aderito alla riforma protestante e sottoposti a processo dal tribunale dell’Inquisizione nel 1552, poterono evitare il carcere per intercessione di Cosimo I. Al centro della sala si trova il Doppio ritratto del Nano Morgante, dipinto dal Bronzino frontalmente su un lato e di dietro sull’altro (ante 1553). La curiosa opera fu dipinta per la corte di Cosimo I, dove Morgante era un buffone.

SALA 65
La sala 65 offre una serie strepitosa di ritratti medicei del Bronzino. Il primo, al centro, è quello di Eleonora di Toledo, ritratta col figlioletto Giovanni durante un soggiorno estivo alla Villa Medicea di Poggio a Caiano, con sullo sfondo il paesaggio al lume della luna. La duchessa Eleonora sposò Cosimo I a 17 anni, essendo stata preferita alla sorella maggiore. Fu un matrimonio importante poiché essa era figlia del viceré di Napoli, don Pedro di Toledo, e la sua unione con Il Medici costituiva la legittimazione del potere nelle mani del giovane duca. Assicurò la discendenza dando a Cosimo ben otto figli. Il piccolo Giovanni che qui sta con lei, intelligente e colto, destinato alla carriera cardinalizia, morì per una epidemia di febbri nel 1662, a 19 anni, pochi giorni prima della madre, allora appena quarantenne.
Affiancano il ritratto della bionda Eleonora quelli del marito, il duca Cosimo I, in armatura, e quelli di alcuni figli: la primogenita e bellissima Maria, promessa sposa ad Alfonso d’Este ma morta a soli 17 anni, e Francesco, qui giovinetto di 10 anni, ritratti dal Bronzino durante la permanenza a Pisa nel 1551, e poi Bia, figlia naturale di Cosimo I, e Giovanni bambino, con in mano un uccellino, appartenenti ad una serie dipinta dal Bronzino nel 1545.

SALA 66
E’ dedicata alle opere di Raffaello da Urbino, che a Firenze trascorse un periodo di studio dal 1504 al 1508, anni in cui era stato instaurato il governo repubblicano e i Medici erano stati cacciati, di cui le collezioni fiorentine degli Uffizi e di Palazzo Pitti conservano il maggior numero di quadri al mondo: ben 20. A Firenze Raffaello eseguì, negli stessi anni in cui Michelangelo dipingeva il Tondo Doni, la Madonna del cardellino, sottoposta recentemente ad un difficile restauro durato 10 anni.


Madonna-del-cardellino-Raffaello

L’opera era infatti andata in pezzi sotto le macerie della casa di Lorenzo Nasi nel 1547 e nel corso dei secoli aveva subìto restauri così pesanti che non permettevano più di ammirarne la poetica bellezza, che oggi ha riacquistato. Si tratta di un’opera giovanile che risente ancora dell’alunnato sotto il Perugino ma che mostra anche l’influenza delle opere di Leonardo da Vinci, il maestro che Raffaello era venuto a studiare nel suo soggiorno a Firenze dal 1504 al 1508.
Dall’eredità di Urbino proviene il Ritratto del papa Giulio II, al secolo Giuliano della Rovere, che nei dieci anni del suo pontificato riuscì a riunificare i possedimenti dello Stato della Chiesa sconfiggendo Cesare Borgia e cacciando i francesi dalla penisola italiana. Proprio nell’ambito della guerra della Lega Santa capeggiata da Giulio II contro la Francia, il cardinale Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, riuscì, nel 1512, a riottenere il governo di Firenze per la propria famiglia e, l’anno seguente, alla morte di papa Giulio, venne eletto pontefice. E’ qui infatti esposto il Ritratto di Leone X con i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi che Raffaello dipinse nel 1518 a Roma per essere inviato a Firenze. L’opera fu collocata nel Palazzo Medici di Via Larga in occasione delle nozze del nipote del papa, Lorenzo duca di Urbino, con Maddalena del la Tour d’Auvergne, dai quali nacque nel 1519 Caterina, rimasta orfana appena venuta al mondo. Fa un certo effetto considerare che questo magnifico dipinto, descritto minuziosamente da Giorgio Vasari che ne ammirava la mirabile resa dei particolari che sembrano veri, fu eseguito da Raffaello trentacinquenne solo due anni prima della morte. Il papa Medici è raffigurato con un prezioso libro miniato: fu lui che, alla cacciata dei Medici da Firenze nel 1494, riuscì a mettere in salvo la biblioteca del nonno Cosimo e del padre Lorenzo, e che in seguito commissionò a Michelangelo la costruzione della Biblioteca Laurenziana presso il convento di San Lorenzo. Michelangelo, che da ragazzo aveva vissuto in palazzo Medici sotto la protezione di Lorenzo il Magnifico insieme ai suoi figli, era coetaneo di Leone X, che negli anni del suo pontificato fece di Roma la nuova culla del Rinascimento dopo Firenze. Il particolare della palla che orna la spalliera della sedia, in cui si riflettono la finestra, le spalle del papa e l’intera stanza, non è solo un motivo ornamentale ma anche un elemento araldico che allude all’arme medicea, così come le ghiande della sedia del papa Giulio II alludono alla rovere (la quercia) da cui deriva il suo cognome. Leone X è il papa che provocò la protesta di Martin Lutero nel 1517 e il suo cugino Giulio, qui ritratto ancora come cardinale, sarà il papa Clemente VII che provocherà lo scisma della chiesa anglicana quando si rifiuterà di concedere al re d’Inghilterra Enrico VIII il divorzio da Caterina d’Aragona.

SALA 71
Nella sala 71 è esposta la celebre Madonna adorante il Bambino del Correggio del 1526.


Adorazione del Bambino, Correggio-1526

L’opera venne dotata di una bella cornice barocca e collocata nella Tribuna degli Uffizi nel 1617, quando pervenne a Firenze come dono del duca di Mantova Ferdinando Gonzaga al granduca Cosimo II. I due personaggi erano cugini di secondo grado poiché il Gonzaga era figlio di Eleonora di Francesco I de’ Medici e dunque sorella della regina Maria di Francia.

Madonna dal collo lungo, Parmigianino-1537

Morte di Adone, Sebastiano del Piomboi-1512

SALA 83
La sala 83 ospita le opere di Tiziano, pervenute ai Medici con l’eredità di Urbino, tramite il matrimonio di Ferdinando II con Vittoria della Rovere, ultima discendente della famiglia.

Flora, Tiziano-1515

L’unione tra i due, che erano cugini di primo grado essendo il padre di lui, Cosimo II, fratello della madre di lei, Claudia de’ Medici, venne combinata dalle famiglie quando Ferdinando aveva tredici anni e Vittoria appena un anno.

Venere di Urbino, Tiziano Vecellio-1538

L’opera più celebre è infatti la così detta Venere di Urbino, dipinta da Tiziano per Guidubaldo II Della Rovere nel 1538.
I due ritratti che si vedono ai lati, pure di Tiziano e risalenti al 1536-37, sono le effigi dei genitori di Guidubaldo, Francesco Maria della Rovere e sua moglie Eleonora Gonzaga.


Giuditta decapita Oloferne, Artemisia Gentileschi-1620

SALA 90 – L’itinerario si conclude in questa sala dedicata al Caravaggio, il genio “maledetto” che all’inizio del Seicento rinnovò profondamente la pittura non solo in Italia ma anche in Europa. Gli elementi che caratterizzano lo stile caravaggesco sono il realismo con cui vengono descritti i particolari e il contrasto fra la luce e la tenebra. Quest’ultimo non è soltanto un effetto di grande suggestione ma presenta anche un significato simbolico: la luce è la grazia, la tenebra è il peccato e la disperazione. Questo era il riflesso delle vicende biografiche del pittore, che al genio nell’arte unì la sregolatezza nella vita. Nelle opere conservate agli Uffizi questo aspetto non è ancora molto sviluppato poiché sono dipinti giovanili, ma non si può fare a meno di ammirare il terribile sguardo della Medusa sullo Scudo con la testa di Medusa che risalta come viva dallo sfondo scuro dello scudo, o il crudo realismo della mano di Abramo che sta per uccidere il figlio nel Sacrificio di Isacco, o la perfetta resa dei particolari nel Bacco lascivo.


Medusa, Michelangelo Merisi da Caravaggio-1598

Fra le opere del Caravaggio esposte nella sala 90 due furono donate a Ferdinando I de’ Medici dal cardinal Francesco Maria del Monte, ambasciatore del granduca di Toscana a Roma, che abitava in Palazzo Madama, proprietà medicea: e il Bacco.


Bacco, Michelangelo Merisi da Caravaggio-1596

Delle due opere non risultano copie o riproduzioni in incisione fino al 1819, segno che erano gelosamente conservate negli appartamenti privati granducali. Lo scudo di Medusa si trovava nell’Armeria granducale, abbinato all’armatura donata a Ferdinando I nel 1601 dal sovrano di Persia Abbas il Grande. Ferdinando I aveva dovuto abbandonare la carriera ecclesiastica nel 1587 alla morte del fratello Francesco I, che aveva lasciato solo figlie femmine, alle quali non era concessa la successione, e si era sposato con Cristina di Lorena, nipote di Caterina de’ Medici, che dalla nonna aveva ereditato le famosissime e preziose collane di perle.

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Dopo gli Uffizi torniamo a passeggiare per il quartiere narrato da Vasco Pratolini nel 1949 nel suo libro “Le ragazze di San Frediano”, con la sua atmosfera da “vecchia Firenze” che affascina e attira.

E che nasconde piazze, stradine e angoli deliziosi, vanta tesori artistici come la Basilica di Santa Maria del Carmine all’interno della quale va assolutamente visitata la Cappella Brancacci decorata da Masaccio.


Masolino e Masaccio lavorarono separatamente a scene diverse, pianificando accuratamente i loro interventi in modo da poter operare contemporaneamente. Essi usarono un solo ponteggio dipingendo scene contigue, in modo da evitare una netta separazione tra le loro opere, che avrebbe creato maggior squilibrio rispetto a una divisione “a scacchiera” come si vede oggi. Sul ponteggio di forma rettangolare l’uno dipingeva la scena sulla parete laterale, l’altro su quella frontale, per poi scambiarsi i compiti sul lato opposto. Con questo metodo venne sicuramente eseguito il registro superiore e forse la parte delle lunette, mentre l’interruzione dei lavori comportò la mancata applicazione nel registro inferiore.


Una questione molto dibattuta è quella degli aiuti che i due pittori offrirono reciprocamente in scene destinate all’altro. Alcuni studiosi tendono ad escluderle, altri, basandosi su confronti stilistici, le sottolineano. Per esempio si attribuiva in genere a Masaccio lo schema prospettico della Guarigione dello storpio e resurrezione di Tabita, identico a quello del Tributo, ma forse venne elaborato da entrambi. A Masaccio sono attribuite le montagne realistiche nella Predica di San Pietro, come mai ne dipinse in lavori successivi, mentre a Masolino è stata attribuita la testa del Cristo nel Pagamento del Tributo, dolcemente sfumata come quella dell’Adamo masolinesco nella Tentazione di Adamo ed Eva.

La cappella Brancacci, situata all’interno della chiesa di Santa Maria del Carmine rappresenta uno degli esempi più elevati di pittura del Rinascimento (1424-1428). Essa è frutto della collaborazione di due dei più grandi artisti dell’epoca, Masaccio e Masolino da Panicale, ai quali deve aggiungersi la mano di Filippino Lippi, chiamato a completare l’opera circa cinquant’anni dopo.

Nel 1268 un gruppo di frati giunti da Pisa fonda a Firenze la chiesa della beata Vergine del Carmelo. I lavori di costruzione vengono portati avanti con il contributo del Comune e delle più facoltose famiglie fiorentine e si protraggono anche oltre la data della consacrazione (1422), terminando soltanto nel 1475. La facciata della chiesa resta incompiuta; ancora oggi si presenta con un grezzo paramento in pietrame e laterizio.
Intanto, grazie alla progressiva acquisizione di terreni circostanti, il complesso comincia ad espandersi con la costruzione degli ambienti conventuali; a partire dal tardo Duecento sorgono il primo chiostro, il dormitorio, il refettorio, la sala capitolare, l’infermeria. Fra il Tre e il Quattrocento si moltiplicano gli interventi di decorazione dei nuovi locali, come attestano gli affreschi ancora presenti o staccati. Cresce nel frattempo l’importanza del convento, presso i cui ambienti si insediano varie compagnie laicali. Nel XIV secolo esso diventa Studium Generale, ovvero Università con facoltà di conferire i gradi accademici, e dà l’abito a Sant’Andrea Corsini (1301-1374).
L’assetto della chiesa viene alterato già nel Cinquecento quando, analogamente ad altre chiese fiorentine, anche questa subisce consistenti lavori di adeguamento ai precetti dettati dal Concilio di Trento. Per volontà del Duca Cosimo I, infatti, l’architetto Giorgio Vasari rimuove il tramezzo, colloca il coro nel presbiterio e rinnova completamente gli altari. Intensi lavori di ammodernamento interessano successivamente anche gli ambienti conventuali: fra il 1597 e il 1612 viene ristrutturato il primo chiostro, che comporta la perdita del celebre affresco della Sagra di Masaccio; poi vengono costruiti il secondo refettorio, detto Sala Vanni dall’autore dell’affresco che lo decora (ca. 1645), e la nuova biblioteca.


Un terribile incendio scoppiato nel 1771 provoca la distruzione degli interni della chiesa e la perdita di larga parte dei suoi arredi. Ne sono risparmiate l’antica Sagrestia (decorata da affreschi dell’inizio del Quattrocento), la Cappella Brancacci e la Cappella Corsini (1675-1683), raro e pregevole esempio di barocco romano a Firenze. Entro pochi anni la chiesa viene completamente rinnovata in stile tardo-barocco dall’architetto Giuseppe Ruggieri, affiancato dai pittori Giuseppe Romei e Domenico Stagi, assumendo l’aspetto che la caratterizza ancora oggi.

Un episodio svoltosi in questa cappella, che è passato alla storia e che valse a uno dei protagonisti addirittura l’esilio dalla città di Firenze va ricordato. Tutto ebbe inizio un pomeriggio d’estate del 1491. Quel giorno il sedicenne Michelangelo Buonarroti era seduto a disegnare nella basilica fiorentina di Santa Maria del Carmine. Copiava i celebri affreschi di Masaccio nella cappella Brancacci e ciò con “tanto giudicio” da meravigliare tutti quanti, artisti e maestri.
Pur adolescente, Michelangelo era già molto ammirato, tante erano le lodi nei suoi confronti che la sua autostima era cresciuta a dismisura!
La reputazione del giovane cresceva ogni giorno di più e con essa, ovviamente, l’invidia dei compagni. Ed eccoci tornati a quel pomeriggio d’estate del 1491: sedeva accanto a Michelangelo, davanti alle straordinarie Storie di San Pietro, Pietro Torrigiano, un altro promettente allievo del giardino di San Marco. I due facevano a gara nell’assimilare gli esempi dei maestri antichi o relativamente recenti, come Masaccio, nel tentativo di eguagliarli e superarli. Ma troppo bravo era Michelangelo e forse troppo taglienti i suoi sarcasmi perché la competizione potesse rimanere amichevole.
Non sappiamo con esattezza cosa successe né cosa Michelangelo disse realmente al Torrigiano, ma riuscì a farlo infuriare così tanto che l’amico non riuscì, racconta lui stesso a Benvenuto Cellini, a resistere alla tentazione di rifilargli un pugno: “mi venne assai più stizza che ‘l solito e, stretto la mana, cli detti sì grande il pugno in sul naso, che io mi sentì fiaccare sotto il pugno quell’osso e tenerume del naso come se fusse stato un cialdone: e così segniato da me resterà insin che vive”.

Michelangelo, secondo leggenda, svenne e giacque sul pavimento col naso rotto e il petto coperto di sangue. Portato di corsa nel palazzo di via Larga, divenuta ormai la sua casa, venne prontamente curato ma, come pronosticato dal suo assalitore, la storpiatura rimase a segnare per sempre il volto del Buonarroti.
Se Michelangelo aveva di che piangere, non rise molto nemmeno l’irascibile Torrigiani. Che, proprio a ragione del suo gesto avventato, subì addirittura l’esilio da Firenze. Anche se alcune fonti ricordano, in verità, che fu lo stesso sventurato a lasciare di sua spontanea volontà la città.


Siamo poi passati davanti a quello che è a buon diritto considerato forse il più bello tra i palazzi rinascimentali civili d’Italia, Palazzo Strozzi, con la sua inconfondibile facciata in bugnato che si apre sull’omonima piazza.

Nel cortile del Palazzo dal 19 aprile al 26 agosto è possibile vedere un doppio scivolo: due strutture di acciaio e policarbonato che partono dalla balconata del secondo piano e arrivano nella corte. I visitatori potranno intraprendere questa discesa di 20 metri portando con sé una pianta di fagiolo, da riconsegnare – al termine dell’esperienza – agli scienziati. Gli studiosi analizzeranno i diversi parametri fotosintetici della piantina e l’emissione di messaggi sotto forma di molecole volatili, originate dalle emozioni vissute dai partecipanti.

Il secondo giorno del nostro itinerario finisce in Piazza Santa Maria Novella, rinnovata di recente, sulla quale si affaccia una delle chiese più belle di Firenze: la Chiesa di Santa Maria Novella.

La facciata della chiesa è in marmo bianco e verde ed è stata disegnata da Leon Battista Alberti, mentre la splendida Cappella Tornabuoni è stata affrescata dal Ghirlandaio. Spesso e volentieri nella piazza ci sono musicisti a suonare musica di ogni tipo, sedetevi su una panchina e perdetevi tra le note, iniziando così a vivere l’atmosfera della città. Entrate anche nella chiesa domenicana che era fulcro, insieme a Santa Croce per i Francescani, delle prediche degli ordini mendicanti. Una volta dentro godetevi l’interno e i dipinti delle cappelle, oltre alla Trinità del Masaccio e al Crocifisso di Giotto. Passeggiate tra i chiostri del convento e osservate le incisioni che raffigurano la Commedia di Dante.

Facciamo ritorno a Roma con la convinzione di tornare per visitare il Duomo, il Battistero, il Campanile di Giotto, la Galleria dell’Accademia per vedere il David di Michelangelo perché non avevamo prenotato la visita per tempo, e ancora Palazzo Pitti e il Giardino di Boboli, e ancora San Lorenzo e le Cappelle Medicee, la chiesa di San Marco e la sua biblioteca e quant’altro non siamo riusciti a vedere perché, purtroppo o per fortuna, questo comporta la visita di luoghi tra i più ricchi al mondo di storia, di arte, di fede, se non correttamente programmate le tappe.

Ma una gita a Firenze vale anche solo per una passeggiata su Ponte Vecchio o su lungo l’Arno, o per un panino al “lampredotto” o una “bistecca fiorentina” o semplicemente per sentirti dire da qualcuno “la porti un bacione a Firenze!”.

 

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