Povera democrazia rappresentativa
La crisi della democrazia rappresentativa -che poi è anche crisi del sistema della rappresentanza e di quello dei partiti- è una crisi diffusa in tutti i Paesi con consolidati regimi democratici ed elettivi. La disaffezione alla politica regna sovrana. Se ci limitiamo ad osservare in giro per il mondo le percentuali di partecipazione alle elezioni o i tassi di fiducia nella classe politica, sembra di assistere a una sorta di “stanchezza democratica”.
Se si contrappongono astensionismo, instabilità elettorale, emorragia dai partiti, impotenza amministrativa, paralisi politica, paura della sconfitta elettorale, penuria di posti di lavoro, bisogno compulsivo di farsi notare, febbre elettorale cronica, stress mediatico estenuante, sospetto, indifferenza e altri mali tenaci, vediamo delinearsi i contorni di una malattia, la sindrome di stanchezza democratica.
Come è ben noto, democrazia è un termine di origini greche composto da due sostantivi kratos (potere), demos (popolo). In realtà il potere non appartiene al popolo perché chi lo dovrebbe rappresentare, si limita a recitare un copione scritto da potentati economico finanziari. Chi non segue questo copione e va a braccio, viene estromesso.
Interessante sarebbe analizzato la presenza di quattro grandi fondi d’investimento statunitensi –Vanguard, BlackRock, State Street Capital e Geode Capital Management– in alcune delle aziende a più alta capitalizzazione del Pianeta.
I cittadini percepiscono questo corto circuito e sempre meno vanno a votare.
Nel 1961, il presidente Usa Dwight Eisenhower -che pure era un ex generale-, nel suo discorso di congedo alla nazione, ci aveva avvertito sostenendo che il crescente peso del complesso militare industriale, per la sua disastrosa influenza progressiva, avrebbe minacciato la libertà dei processi democratici.
Altro grave aspetto emerso platealmente con l’attuale conflitto russo-ucraino è la mancanza di indipendenza, libertà e dignità dei principali mass media italiani. Chi ha tentato di sviluppare un’analisi più complessa o suggerito di percorrere la strada della diplomazia rispetto a quella dell’invio d’armi, è stato tacciato in maniera puerile di essere filo putiniano e antiamericano.
Infine, si è espressa una sudditanza nei confronti degli Stati Uniti a tratti al limite del fanatismo. Si è giunti a minare l’accordo commerciale con la Cina sulle Nuove vie della seta che rappresenta un’occasione epocale per le nostre esportazioni. Come può un governo sabotare le proprie imprese per accontentare le richieste altrui?
Ottanta anni fa gli Usa sono stati determinanti per liberarci dal nazifascismo; tuttavia, si dovrebbe avere un minimo di sovranità e dignità.
In Italia fatta la Costituzione ne inizia la disapplicazione: da quella data, 1° gennaio 1948, e per molti anni ancora, sono coesistite una Carta fondamentale con intenti democratici e, di fronte ad essa, tutta la legislazione ordinaria, approvata durante il fascismo, ampiamente incostituzionale. Inutilmente si era chiesto, da parte del Partito d’Azione oltre che di pensatori e studiosi, l’abrogazione della legislazione fascista e la modifica, per gradi della preesistente legislazione dello stato liberale.
Questo ritardo genera in molti casi la “assuefazione” alla logica che ha ispirato le leggi del regime: ne è un esempio la riforma della legge sulla stampa del 1963 che, istituendo l’Ordine, ribadisce e ulteriormente irrigidisce l’esistenza e le regole dell’Albo dei giornalisti, istituito nel 1923 da Mussolini per controllare la stampa e impedirne la libertà.
Dal primo gennaio 1948, al momento stesso della sua entrata in vigore, inizia immediatamente il processo di snaturamento e svuotamento della Costituzione; da qui i partiti cominciano a impadronirsi del sistema politico e a cancellare lo Stato di diritto; da qui parte la negazione dei fondamentali diritti civili e politici dei cittadini italiani, una lunga e continuata strage di leggi, di diritto, di principi costituzionali, di norme e di regole che avrebbero dovuto governare la convivenza civile della democrazia italiana.
Con un’avvertenza: la strage di legalità ha sempre per corollario, nella storia, la strage di persone.
Molti di coloro che si autoproclamano oggi custodi della Costituzione e che la dichiarano intangibile, dimenticano o rimuovono la storia delle violazioni che la Carta ha subito fin dalla sua entrata in vigore, il 1° gennaio 1948.
Il “partito plurale”, naturale prosecutore ed erede del “partito singolare” fascista, governa sapientemente, alla Costituente, l’afflato radicalmente riformatore, democratico, antifascista scaturito dalla sconfitta del nazifascismo nella guerra del 1939-45.
La nascente partitocrazia veste l’abito della democrazia e ne assume il lessico, come armi utili a salvare l’essenziale: il proprio “libero arbitrio” non sorretto da alcun ordinamento e non sottoposto ad alcuna legge.
Questo “Partito della Prima Repubblica” agisce da subito, nella sua organizzazione, contro la funzione costituzionale fissata dall’articolo 49 della Carta fondamentale.
L’articolo. 49 della Costituzione recita “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.” Mentre per i referendum i partiti pongono regole particolarmente restrittive, per quanto riguarda se stessi non stabiliscono alcuna regola: l’unico intervento legislativo è quello per garantirsi finanziamento di Stato, contro la volontà popolare.
L’introduzione nel 1974 (Legge n. 195) di finanziamenti pubblici ai partiti come pura elargizione istituzionalizza, a carico dello Stato, il sostentamento delle strutture dei partiti piuttosto che il sostegno all’iniziativa politica. Tale legge riconosce i contributi ai partiti rappresentati in Parlamento, penalizzando quindi le nuove formazioni politiche e la partecipazione all’interno dei partiti che, dotati di ingenti risorse pubbliche, rafforzano l’apparato burocratico divenendo sempre più oligarchici.
Per quasi un quarto di secolo, gli italiani sono privati di due dei tre principali strumenti istituzionali che la Costituzione aveva previsto per l’esercizio della sovranità popolare. Tanto la scheda referendaria quanto quella per le elezioni politiche regionali sono sottratte, fino al 1970, alla vita democratica della Repubblica.
La Costituzione assegna ai cittadini il potere di partecipare all’attività legislativa principalmente attraverso tre tipi di voto: quello elettorale nazionale, per scegliere i membri delle due Camere; quello elettorale regionale, per le 20 assemblee legislative in base alla nuova suddivisione territoriale dello Stato; infine quello referendario, per vagliare ed eventualmente correggere, mediante l’abrogazione totale o parziale, le leggi varate dal Parlamento.
Questi tre voti, nel loro insieme, rappresentano la straordinaria intuizione innovativa dei Costituenti, che storicamente hanno vissuto l’esperienza dei regimi totalitari, e che quindi decidono di fondare il nuovo sistema democratico su questi tre pilastri. Alla tradizionale istituzione parlamentare essi aggiungono altri due strumenti di esercizio della sovranità popolare.
Sarò sempre a favore di un referendum (cliccare qui). Il referendum è uno strumento. Il metodo più democratico che conosco è avere un referendum online, su tutti gli argomenti. Direttamente sul mio PC, sul mio smartphone, per ogni persona. Abbiamo bisogno che questa tecnologia sia disponibile. Dare degli strumenti, per tutti e poi essere biodegradabili. Essere un movimento biodegradabile. Quando i cittadini saranno più consapevoli e avranno la conoscenza e la volontà di come poter decidere e prendersi cura della loro vita, il movimento non avrà più senso di esistere. Scomparirà.
Da 80 anni, in Italia, al regime fascista del Partito-Stato ha fatto seguito il regime “sfascista” dello Stato dei Partiti. Da 80 anni, una puntuale e sistematica violazione della Costituzione viene dolosamente consumata contro il popolo italiano, quel “demos” che vive deprivato delle condizioni minime di conoscenza e legalità, necessarie per esercitare il potere sovrano in forma legittima.
In Italia non c’è democrazia, ma partitocrazia, oligarchia, vuoto di potere, arroganza del potere, prepotenza e impotenza. Non esiste Stato di diritto, ma arbitrio di regime.
La democrazia è diventata impopolare. Lo attesta il crollo della partecipazione al suo rito più sacro, le elezioni. La tendenza riguarda l’intero Occidente, in cui ormai un elettore su due non si reca a votare. Negli Usa è rara una partecipazione superiore alla metà degli aventi diritto, nonostante il voto postale e quello elettronico. In Italia il voto sardo, abruzzese e della Basilicata ha registrato tassi di astensione intorno al 50 per cento.
Il calo dell’affluenza alle elezioni parlamentari
La percentuale di elettori che si sono recati al voto alle elezioni per la camera dei deputati tra il 1948 e il 2022
La Costituzione italiana definisce l’esercizio del voto come un “dovere civico”. Un’espressione questa su cui si è molto dibattuto ma che senza dubbio esprime l’auspicio, da parte dei costituenti, che l’intero corpo elettorale partecipi al processo democratico.
“Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico.”
– Costituzione italiana, Art. 48 comma 2
Già questa espressione d’altronde rappresenta una formula di mediazione tra chi, in assemblea costituente, riteneva che il voto dovesse essere obbligatorio e chi invece lo vedeva come un diritto che i cittadini possono liberamente decidere di esercitare o meno.
La Costituzione dunque non disciplina di per sé un obbligo giuridico pur non escludendo, almeno esplicitamente, che la legge possa declinarlo come tale.
E in effetti la prima formulazione del testo unico delle leggi per l’elezione della camera dei deputati (Dpr 361/1957) definiva esplicitamente l’esercizi del voto come un obbligo, prevedendo anche delle sanzioni, anche se di natura assolutamente modesta.
“Ex art. 4 – L’esercizio del voto è un obbligo al quale nessun cittadino può sottrarsi senza venir meno ad un suo preciso dovere verso il paese.
Ex art. 115 – L’elettore, che non abbia esercitato il diritto di voto, deve darne giustificazione al sindaco del comune nelle cui liste elettorali è iscritto”
– Dpr 361/1957 ex articoli 4 e 155
Tali sanzioni peraltro furono molto raramente applicate e nel 1993, con la riforma del Testo Unico, l’articolo 115 che stabiliva le sanzioni per il mancato esercizio del voto fu abrogato, mentre l’articolo 4 fu riformulato. Nel nuovo testo non si parlava più di un dovere, ma di un diritto che dev’essere promosso dalla Repubblica.
“Il voto è un dovere civico e un diritto di tutti i cittadini, il cui libero esercizio deve essere garantito e promosso dalla Repubblica.”
– Art. 4 Dpr 361/1957
Nel 2005 poi è intervenuta su questo dibattito la stessa corte costituzionale. Nella sentenza la Consulta ha quindi definito la scelta di non partecipare come una forma di esercizio del diritto di voto. A parere della corte tuttavia a tale scelta non può essere interpretata come la manifestazione di una volontà politica, dovendogli piuttosto attribuire esclusivamente un significato socio-politico.
“[…] il non partecipare alla votazione costituisce una forma di esercizio del diritto di voto significante solo sul piano socio-politico.”
– Corte costituzionale sentenza 173/2005
La continua crescita del partito del non voto
Il confronto tra i voti ottenuti dai primi due partiti e il numero di elettori che non hanno votato tra il 1948 e il 2022
Per partito del non voto si intende la somma tra il numero di elettori che non si sono recati alle urne e le schede bianche. Non sono invece inclusi in questo insieme i voti considerati nulli per ragioni diverse.
La democrazia rappresentativa non attrae più, anzi non rappresenta, ossia non assolve alla sua funzione. Un numero crescente di persone considera la politica un problema, non una soluzione. Il discredito della classe politica -effettivamente salito a livelli imbarazzanti- e l’adesione della stragrande maggioranza di partiti e schieramenti al medesimo modello socio economico liberista rende sempre meno interessante la competizione, vista come semplice lotta per il potere tra gruppi organizzati di esecutori della volontà di chi comanda davvero: burocrazia e lobby europee, cupole economiche, bancarie, finanziarie, tecnologiche transnazionali.
Perfino le guerre -che i popoli non vogliono- non suscitano dibattito tra le forze politiche, tutte allineate al pensiero dominante delle élite. E il popolo, che le costituzioni chiamano sovrano?
Come il Mattia Pascal di Pirandello, anche la sinistra ha ritenuto possibile cambiare la propria identità. Ha scelto di vivere una “nuova vita” spezzando ogni rapporto con la precedente. Ha metabolizzato lo sguardo di chi sembra odiare la gente comune, divorziando dal popolo e dai lavoratori. La lotta contro il capitale è stata sostituita da quella per il progresso, che finisce per identificarsi nel capitale stesso. La battaglia contro l’imperialismo è stata spodestata da quella in suo nome, sia pure sotto la vernice ideologica dei “diritti umani” da esportazione.
Lo vediamo nelle dichiarazioni di tutti i giorni, sulla guerra, sulle riforme economiche, su tutte le grandi questioni contemporanee. La formula “sinistrash” rende impietosamente conto di quello che la sinistra è divenuta dimenticando ciò che era e, infine, facendosi grottesca parodia di ciò che in un’altra epoca avversava…e PC ha cessato di essere la sigla del Partito Comunista per diventare quella del codice Politicamente Corretto, di cui la new left è custode.
È diventata la guardia fucsia del nuovo e sempre più asimmetrico ordine turbocapitalistico e l’ala avanzata della neoliberalizzazione del mondo della vita. Di qui l’esigenza vitale di abbandonare la “sinistrash” al suo inglorioso percorso per rifondare su nuove basi – con Marx e con Gramsci – l’idea di emancipazione universale dell’uomo.
Quindi la via d’uscita non approda certo a destra: oggi più che mai bisogna superare quest’antica dicotomia, recuperando invece le idee del socialismo e dell’anticapitalismo.
Comunque il declino della rappresentanza politica è preoccupante, giacché aumenta il potere di pochissimi e spegne la voce dei popoli, che non sarà voce di Dio, ma va sempre ascoltata.
L’impopolarità delle procedure democratiche, peraltro, è assai gradita agli stessi che gridano più forte gli slogan “democratici”. Meno gente vota, meglio è. In ogni caso la maggioranza non capisce le vere questioni politiche. Vero, ma allora il vero democratico, se è tale, dovrebbe avere la volontà di spiegarle con franchezza.
Aggiungiamo che l’autentico democratico dovrebbe ammettere di avere torto, se sconfitto alle urne.
Perfino Norberto Bobbio, alla fine della sua lunga vita, concluse che la democrazia era soltanto un insieme di procedure. Ovvio, se manca la ricerca del bene comune, se la legge non è che l’espressione contingente degli interessi e delle idee dei dominanti, viene meno quel diritto “positivo” di cui l’intellettuale torinese fu il massimo divulgatore. Se la procedura è in crisi, è in crisi anche il principio che la sostiene, l’idea della libera volontà della maggioranza che si fa governo. Come potrebbe essere diversamente, se il potere del denaro svuota la democrazia, se le elezioni vengono vinte da chi ha più quattrini da spendere per orientare gli elettori, cioè convincere manipolandoli?
La rappresentazione democratica diventa spettacolo: vince il/la più attraente, chi meglio “buca lo schermo”. Ma per bucare lo schermo bisogna arrivarci, ai mezzi di comunicazione.
Meno estesa è la partecipazione, più grande è la presa delle lobby, degli interessi creati, di chi decide chi può partecipare alla grande corsa e chi no. I vincenti della competizione non devono neppure raggiungere la maggioranza aritmetica: vari espedienti nei sistemi elettorali premiano le minoranze più forti a scapito di tutti gli altri. Il sistema maggioritario inglese elegge governi che da un secolo non rappresentano la fatidica metà più uno dei votanti (già falcidiata dagli assenti).
Il principio di maggioranza è di fatto negato: anche per questo il sistema favorisce la frammentazione politica, che spesso non è divergenza di idee o progetti, ma lotta di opposte ambizioni personali. Per converso, la polverizzazione politica tende ad escludere le nuove idee, i movimenti di formazione più recente, soprattutto se le istanze che rappresentano -e che dunque esistono nella società- sono oppositive, antagoniste.
Se si volesse, insieme ad amici e simpatizzanti, partecipare alle elezioni, forti di un programma politico preciso e bene argomentato, dovremmo superare una serie impressionante di ostacoli.
Dopo esserci registrati legalmente (e cioè aver presentato 1) deposito del contrassegno di lista presso il Ministero dell’interno; 2) deposito, presso il Ministero dell’interno, delle designazioni degli incaricati di presentare le liste dei candidati presso gli Uffici elettorali circoscrizionali; 3) deposito, sempre presso il Ministero dell’interno, delle designazioni dei delegati, per ciascuno degli altri Stati membri dell’Unione europea, con l’incarico, a loro volta, di designare i rappresentanti del partito o gruppo politico presso le singole circoscrizioni consolari e i rappresentanti di lista presso ciascun ufficio elettorale di sezione istituito negli Stati predetti; 4) presentazione delle liste dei candidati presso gli Uffici elettorali circoscrizionali.), saremmo obbligati a raccogliere un numero consistente di firme di cittadini a sostegno della nostra candidatura.
Le sottoscrizioni, secondo legge, devono essere convalidate alla presenza di un soggetto autorizzato (notaio, cancelliere, ufficiale di stato civile) con le conseguenti ingenti spese relative. Una norma criminogena, elusa ampiamente.
In corso d’opera, scopriremo che alcuni competitori si sono esentati dall’operazione. Con varie leggine ed opportuni emendamenti, chi è già presente nelle istituzioni elettive, per una sorta di ius primae noctis politico, non deve sottostare alla norma generale.
Il nuovo arrivato, esausto, alla fine ce la potrebbe fare: sarà presente sulla scheda elettorale. Tuttavia, se non ha appoggi importanti o ingenti mezzi economici, non avrà accesso -se non marginalmente- ai mezzi di comunicazione.
Sarà ignorato, silenziato nelle televisioni, in radio e sui giornali. Non potrà pagare pubblicità, diretta e indiretta, e molto probabilmente otterrà pochissimi voti.
Alla faccia dell’uguaglianza e di un accesso imparziale ai mezzi di informazione e parità di trattamento tra i soggetti politici, attribuendo a ciascuno un adeguato spazio di comunicazione e propaganda, pilastro teorico della democrazia.
Democrazia, democrazia, è cosa vostra e non è mia, alcuni cantavano da ragazzi. Democrazia in quanto che comandate voi, era la strofa successiva. Si avevano ragione.
Nel caso dell’europarlamento, la regola -assurda, escludente- impone almeno centocinquantamila sottoscrizioni, trentamila per ognuno dei cinque collegi in cui è divisa l’Italia, con il minimo di tremila per ciascuna regione. Problemino: la Valle d’Aosta ha poco più di centomila abitanti, compresi i minorenni e gli stranieri, il Molise trecentomila.
Chi può raccogliere tremila firme, se non ricorrendo a varie forme di illegalità, ossia commettendo gravi reati? C’è di più: un movimento presente alle elezioni parlamentari in tutta Italia deve raccogliere sessantamila firme in tutto. L’europarlamento, evidentemente, vale due volte e mezzo quello italiano, pur non avendo potestà legislativa.
Crediamo ancora nella sacra democrazia, se il suo esercizio concreto è negato tanto platealmente? Vi sembra strano che il sistema rappresentativo -ridotto a percorso ad ostacoli che esclude il nuovo e l’antagonista a norma di legge- stia diventando sempre più impopolare?
Per regolare l’ordine di priorità sulla scheda i cervelloni del servizio elettorale del Viminale non si affidano al sorteggio o allo strumento telematico, ma come se vivessero ancora nel secolo scorso, pretendono la presentazione del simbolo in forma cartacea con consegna a mano. Conseguenza? Mentre si parla di intelligenza artificiale, di nuove tecnologie, i galoppini di partito sono costretti a fare la fila dal venerdì precedente con pernottamento all’addiaccio senza poter lasciare il posto. Roba da terzo o quarto mondo che ha visto premiato il simbolo di Cateno de Luca. E ho detto tutto.
Il caso italiano di queste settimane è eloquente: con un semplice emendamento, la raccolta delle firme per le elezioni europee di giugno è stata evitata ad alcuni e imposta ad altri.
A parte queste note folkloristiche va ripetuto che il voto è una cosa seria da non prendere sottogamba (vista la dilagante astensione) perché ne va di mezzo il futuro dei giovani.
Comunque diciamo, come si fa oggi a non essere democratici? Sul vocabolario c’è scritto che democrazia, è -come già detto in precedenza- parola che deriva dal greco, e significa “potere al popolo”. L’espressione è poetica e suggestiva. Ma in che senso potere al popolo? Come si fa? Questo sul vocabolario non c’è scritto.
Però si sa che dal 1945, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto al voto. È nata così la famosa democrazia rappresentativa, che dopo alcune geniali modifiche, fa si che tu deleghi un partito, che sceglie una coalizione, che sceglie un candidato, che tu non sai chi è, e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni.
E che se lo incontri, ti dice giustamente: “Lei non sa chi sono io“. Questo è il potere del popolo.
Il voto politico significa attribuire un mandato e chi lo riceve dopo averlo chiesto non può gettarlo nel cestino o regalarlo ad altri come stabilisce l’antico brocardo (delegatus non potest delegare) per cui chi ha ricevuto un mandato non può subdelegare ad altri.
Chi rompe il patto, chi manca alla parola data, chi non mantiene la promessa, soprattutto in campo politico, si chiama fedifrago (dal latino foedus + frangere). Dante lo mette nel lago ghiacciato del Cocito a testa in giù.
È uno spergiuro, un infedele, un imbroglione. E chi si lascia imbrogliare, nonostante gli avvertimenti è un fesso che ignora la storia e non sa leggere i tre segni di riconoscimento dell’ipocrita che quando parla, mente; quando fa la promessa della luna sa sicuramente di non poterla mantenere; quando raccoglie la fiducia di chi dice mi fido di lui, è pronto a tradirlo (cliccare qui).
Un’ulteriore riflessione riguarda la verità della “legge ferrea dell’oligarchia”: tutti i partiti si evolvono da struttura democratica aperta a circolo chiuso dominato da un numero ristretto di dirigenti, tendenti a diventare una categoria professionale e autoreferenziale.
Con il tempo, chi occupa cariche apicali si allontana dalle idee della struttura cui aderisce, formando una élite compatta, dotata di spirito di corpo. Nello stesso tempo, il partito tende a moderare i propri obiettivi: il fine principale diventa la sopravvivenza dell’organizzazione e non la realizzazione del programma.
La classe politica -come ogni gruppo di potere- è una minoranza organizzata capace di vincere su maggioranze disorganizzate. In ogni società ci sono i governanti (a suo tempo la classe politica, oggi vassalla della struttura economica, finanziaria e tecnologica) e i governati (il resto della società). Confusamente, l’opinione pubblica lo ha capito e si rifiuta di partecipare a un gioco con carte truccate.
Questa condotta, in sé naturale, ha una grave controindicazione: i politici -e i loro padroni– lo sanno perfettamente, alimentano la disaffezione e si fregano le mani soddisfatti per la nostra indifferenza e vana ostilità. Conta che il gioco resti nelle loro mani: per questo si chiudono a riccio come casta, indipendentemente dalle idee che affermano di professare.
Meno siamo, pensano, più ampia è la fetta di torta che ci tocca. Realisticamente, occorre dunque far valere -come individui e gruppi pensanti- la stessa legge dell’oligarchia e costituirci come tale. Se vota la metà di chi ne ha diritto, il mio voto vale doppio: la mia capacità di mobilitazione, di influenza, di lobby, diventa l’elemento che si trasforma in potere.
Ma la crisi della rappresentanza democratica non sembra essere crisi democratica, o meglio, non sembrerebbe coincidere con una riduzione della volontà dei cittadini di partecipare alla vita istituzionale di un Paese e in generale di una comunità.
Internet ha ampliato enormemente la possibilità di partecipare alle scelte democratiche e il desiderio di parteciparvi è testimoniato dalla moltitudine dei dibattiti che si sviluppano in rete su ogni questione d’interesse pubblico.
Il progresso tecnologico, i nuovi strumenti e il web hanno notevolmente ampliato le modalità di accesso alle informazioni e di interazione sociale, così come cominciano a permettere nuove forme di partecipazione democratica diretta: dal bilancio partecipativo alle assemblee cittadine, dai consigli di quartiere alla possibilità di scrivere, commentare e proporre iniziative legislative.
Qualsiasi persona si può iscrivere gratuitamente ad un qualche portale e votare una legge, proporre una legge o una modifica.
Chiunque può entrare e far parte della politica. Oggi da un computer, uno smartphone, si potrebbero scegliere le cose importanti del proprio Paese. Non dall’alto, ma dal basso.
È per questo che sono sempre più convinto della necessità di formare delle reti di soggetti -individui, associazioni, intellettuali- portatori di principi, esigenze, visioni della vita da fornire come programma alla classe politica in cambio del nostro appoggio.
Sono le minoranze a cambiare il mondo: la maggioranza, come l’intendenza di Napoleone, seguirà. Se non ci riusciremo, potremo soltanto lamentarci, gridare al vento che “sono tutti uguali”, sconfitti dalle idee che detestiamo, trasformate in leggi, senso comune, “segni dei tempi” per un unico motivo: hanno trovato la minoranza organizzata che le ha imposte.
Nell’immediato, non resta che la falsa alternativa tra il “meno peggio” e il silenzio. Entrambe le scelte sono gradite al sistema. Il banco vince sempre, finché non cambieremo il gioco.
Dobbiamo creare una nuova società con una sorta di rivoluzione lenta, gentile e silenziosa.
La vera politica oggi è fare rete, comunità, ricostruire un tessuto sociale che si è completamente perso.
La vera politica oggi è restare umani, disubbidire quando serve, boicottare, opporsi…è coltivare un orto (cliccare qui), praticare consumo critico, riconquistare pezzettini di sovranità alimentare, energetica e spirituale…è con le nostre azioni quotidiane che facciamo politica non solo delegando qualcuno con una X.
“E allora, va a finire che se fossi Dio, io mi ritirerei in campagna…come ho fatto io”
Era un Gaber davvero nauseato. Pensa se vedesse come siamo combinati oggi…
Non c’è libertà politica senza libertà economica. A che serve la libertà politica a chi dipende da altri per soddisfare ai bisogni elementari della vita? È opportuno dare all’uomo la sicurezza della vita materiale, dargli la libertà dal bisogno, perché egli sia veramente libero nella vita civile e politica, perché egli si senta davvero uguale agli altri uomini e libero dall’obbligo di ubbidire ad essi nella scelta dei governanti, nella manifestazione del pensiero e delle credenze. La libertà economica è la condizione necessaria delle credenze. La libertà economica è la condizione necessaria della libertà politica.
Il Bitcoin rappresenta un’alternativa -proprio come internet ha decentralizzato l’informazione, aprendo l’intero scibile umano a chiunque disponga di una connessione web e di sete di conoscenza– così il Bitcoin offre la vera libertà monetaria ed economica.
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La privacy è un diritto, non una forma di sovversione. Il Bitcoin è sovranità monetaria individuale e strumento per esercitare la propria libertà.
Quindi -oltre a coltivare l’orto- sarà bene creare un nodo Bitcoin e diventare Unfuckable; questo dispositivo, come un computer o un portatile collegato a Internet deve essere in grado di memorizzare ed eseguire la blockchain di Bitcoin. I nodi Bitcoin lavorano con i minatori per mantenere il sistema. I nodi sono collegati tra loro.