Mastella: appoggio esterno a Prodi. Governo in bilico
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Le dimissioni di Mastella
Il Velo Squarciato
Stavolta no. Stavolta una notizia d’arresto divulgata per via mediatica prima ancora della notifica alla persona interessata, e un atto giudiziario che configura di fatto l’incriminazione di un intero partito non sono stati accolti con la solita ipocrisia. Stavolta il ministro Mastella ha
ricevuto pubbliche solidarietà che non si aspettava. Sulla vicenda Mastella, della moglie Sandra Lonardo e dell’Udeur campana inquisita in blocco come una qualunque associazione a delinquere, stavolta si è strappato il velo cerimonioso della simulazione che prevede, da parte della politica, l’omaggio preventivo alla magistratura come salvacondotto obbligatorio per ogni valutazione critica sull’operato di alcuni magistrati (non tutti). Stavolta il presidente del Consiglio, Romano Prodi e il vice-presidente del Csm, Nicola Mancino, hanno espresso la loro solidarietà a Mastella, non temendo di unire le loro voci a quelle, ovviamente ipercritiche verso le modalità di intervento di certi magistrati, dell’opposizione. Stavolta la parte maggioritaria del Parlamento (il Partito democratico più il centrodestra) ha fragorosamente applaudito le parti più dure del discorso con cui il ministro Mastella ha annunciato le sue dimissioni, rompendo l’incantesimo di un bipolarismo primitivo che prevede la scelta di mettere a profitto le difficoltà giudiziarie che funestano il campo avversario. Si è sentita l’enormità di una procedura purtroppo molto, davvero troppo frequente in Italia, che costringe chi viene raggiunto da un provvedimento giudiziario così grave come la custodia cautelare ad averne conoscenza dalla stampa e non dagli uffici che ne dispongono la messa in atto.
Ieri è stata una giornata di svolta nel rapporto tempestoso che ha inquinato il rapporto tra politica e magistratura in Italia. Non è stato detto, come è sempre avvenuto, che occorre attendere (sottolineando: «serenamente») le conclusioni del lavoro della magistratura per poterne ricavare un giudizio, ma un giudizio è stato formulato con una certa celerità: troppo clamorose sono state la tempistica, le modalità, l’entità delle accuse rivolte a un intero partito, in questo caso l’Udeur, trattato alla stregua di un’associazione criminale. Il contenuto delle accuse a Mastella, a sua moglie e al suo partito si è appannato e sono emerse fin dall’inizio le implicazioni politiche di un caso che coinvolge pesantemente un esponente del governo. Ci saranno prezzi da pagare, per questa scelta. Il ministro Antonio Di Pietro dovrà decidere come accettare la sua permanenza in un governo che ha accolto con favore i toni molto aggressivi con cui il ministro dimissionario ha attaccato una parte della magistratura tra gli applausi del Parlamento. Da parte dell’Associazione nazionale magistrati non sono mancate le manifestazioni di stupore per le parole pronunciate con una veemenza mai raggiunta nemmeno dagli esponenti del centrodestra più inclini a un atteggiamento bellicoso nei confronti dell’intera magistratura. Ma un tabù è venuto meno, nel centrosinistra si è definitivamente rotto l’obbligo dell’unanimismo, anche al prezzo di polemiche su un fronte cruciale della politica di questo quindicennio.
Nei giorni prossimi si vedrà se il governo saprà reggere le tensioni esplose ieri. Ma una tassativa intimazione al silenzio, vigente oramai da molti anni, è stata apertamente sfidata. Come a voler chiudere una fase storica durata troppo a lungo. Un effetto boomerang non previsto da chi non si rassegna all’idea di rinunciare all’arma giudiziaria come soluzione dei conflitti politici.(dal Corriere.it)
Gli applausi affrettati della casta
La notizia che fa più impressione – politicamente parlando – non è l’arresto di Sandra Mastella e di altre 23 persone. E neanche l’indagine a carico del ministro della Giustizia, di cui si è saputo solo nel pomeriggio. È invece la reazione che tutto questo ha suscitato nel mondo politico, a destra, al centro e a sinistra. L’applauso bipartisan che ha salutato il furioso e anche commosso discorso di Mastella contro la magistratura, gli interventi che si sono succeduti in aula, la preghiera che tutti – a cominciare da Prodi e a finire con Rifondazione, che ha corretto il tiro solo dopo l’intervento di Bertinotti dal Venezuela – hanno rivolto al ministro affinché restasse al suo posto, dimostrano una cosa sola: guai a chi tocca la casta della politica.
La quale si difende senza neanche aspettare qualche ora per capire meglio che cosa stia succedendo, si ribella e spara a zero contro i giudici senza aver letto le carte (dalle quali si spera che arrivino ipotesi di reato più solide della concussione nei confronti di Bassolino).
Senza informarsi. A prescindere. Fa quadrato, si schiera a difesa del suo esponente sotto accusa (peraltro ieri mattina era sotto accusa solo sua moglie), arriva fino al punto di respingere dimissioni indispensabili, anzi doverose, da parte del responsabile della Giustizia.
Eppure chiunque con un minimo di buon senso sa che Mastella non poteva restare al suo posto mentre il suo partito, la sua famiglia e lui direttamente venivano colpiti dalla giustizia stessa, fosse stato ministro dei Beni culturali ancora ancora…
Ma questo semplice buon senso politico non ha minimamente sfiorato i nostri uomini di governo e di maggioranza: un coro di dichiarazioni, un pellegrinaggio di solidarietà, una sequela di telefonate sono arrivate a Mastella. Non stiamo parlando di solidarietà umana, ché quella non si nega a nessuno: bensì di quella politica (e di governo). E se l’opposizione non sorprende, visto che al centrodestra le toghe non sono mai piaciute (mentre dall’altra parte sì), e visto pure che un’occasione del genere per acchiapparsi Mastella e chiudere così l’era Prodi non si presenta tutti giorni, la domanda va rivolta al premier. Perché ha respinto le dimissioni di un suo ministro che evidentemente non può più svolgere serenamente le sue funzioni, se non diventando ostaggio dei magistrati che lo indagano (e viceversa)? E perché tutto il centrosinistra, escluso Di Pietro, ha seguito il suo premier su una strada che rischia di trasformarsi in un vicolo cieco?
La risposta non è solo quella più evidente, appunto la casta che difende se stessa. Qui entra in gioco un altro fattore, ossia la vita del governo. La paura, diciamo pure il terrore, che Mastella approfittasse della contingenza per chiudere la sua avventura con il centrosinistra, ha scatenato una reazione istintiva, primordiale: primum sopravvivere. E allora non importa la morale, l’etica, l’immagine peraltro già logora che si trasmette al Paese e alla propria opinione pubblica. Non importa nemmeno il rispetto della regola elementare che il centrosinistra sbandiera contro Berlusconi solo quando gli fa comodo: il conflitto di interessi. Che in questo caso, al di là di quelle che siano le sue colpe (se ci sono), Mastella incarna in un sol uomo. Importa solo restare dove si sta, ad ogni costo, nonostante tutto e tutti. Sempre meno credibili, sempre più deboli e sempre più esposti al rischio di crollare da un minuto all’altro.
Sarebbe facile dire che se un comportamento del genere l’avesse tenuto il governo Berlusconi, l’opposizione di allora avrebbe occupato il Parlamento, sarebbe scesa in piazza, si sarebbe appellata al Presidente della Repubblica, avrebbe gridato al colpo di Stato. Ma si sa che l’abito fa il monaco, in politica purtroppo non conta la coerenza bensì il ruolo che in quel dato momento si ricopre e il potere che si gestisce. Anche se questo modo di fare può provocare – e probabilmente provocherà – una reazione di disgusto in gran parte degli elettori del centrosinistra. Che oggi hanno tutto il diritto di chiedersi dove si trovi sul serio l’antipolitica: nel Paese o nel Palazzo? RICCARDO BARENGHI per la Stampa
Il punto
Forse nemmeno Stephen King, il maestro del genere “horror”, avrebbe immaginato uno scenario più cupo di quello che si osserva in queste ore nella Roma politica. Si avverte la sensazione quasi fisica di un dissolvimento in atto. Come un buco nero in cui rischia di sprofondare non solo Mastella e il suo partitino, ma qualsiasi speranza di ridare un senso e una dignità alla parola «politica». E forse c’è una logica insondabile persino nelle coincidenze. Quasi nelle stesse ore in cui il ministro della Giustizia annunciava le sue dimissioni, accompagnate da un violento, vorremmo dire incredibile atto d’accusa verso la magistratura, la Corte costituzionale giudicava ammissibili i quesiti referendari. Decisione attesa, quest’ultima. Ma pur sempre decisione dagli effetti dirompenti sugli assetti politici, perché il referendum sulla legge elettorale si è caricato, a torto o a ragione, di una valenza quasi messianica. È già diventato, e ancor più lo sarà nelle prossime settimane, la bandiera simbolica di tutti coloro che vogliono farla finita con i vecchi, oscuri, inefficienti sistemi di potere. Un grande plebiscito per l’Italia di domani.
È realmente così? No, certo. Il referendum Guzzetta-Segni è solo un onesto tentativo di rivolgersi al popolo per modificare in senso maggioritario la legge elettorale. Si può essere d’accordo, oppure no: ma di questo si tratta. Ha poco senso farne il vessillo dell’anti-politica, della rivolta contro il Parlamento. Tuttavia è proprio quello che rischia di accadere, causa la miopia, la testardaggine, l’insensatezza della classe politica. E in particolare, spiace dirlo, della maggioranza di centro-sinistra al Governo.
Non c’è nulla di male nell’esprimere solidarietà a Clemente Mastella e a sua moglie: tra l’altro le accuse di concussione sono tutte da decifrare e non sarebbe la prima volta che ai fuochi d’artificio mediatico-giudiziari segue il nulla, secondo un pessimo costume che la dice lunga sullo stato della giustizia. C’è però da restare stupiti di fronte all’applauso corale, davvero “bipartisan”, che ha accolto in Aula l’arringa di Mastella contro i magistrati. Nel giorno in cui un senatore, Willer Bordon, si dimetteva dal Senato affermando, un po’ a effetto, «lascio la casta», ecco che Montecitorio ha confortato tutti i peggiori stereotipi diffusi nell’opinione pubblica. Centinaia di deputati, di destra e di sinistra, chiusi a riccio, pronti a sostenere uno di loro – ministro della Giustizia in carica – mentre dichiara la sua personale guerra alla magistratura. Con argomenti che fino a ieri erano tipici di Berlusconi e di Castelli, mentre erano respinti con sdegno snobistico dalle anime pure della sinistra.
Di lì a poco si sarebbe saputo che non solo la moglie del ministro, ma anche l’intera struttura di potere dell’Udeur in Campania era agli arresti. Compreso il sindaco di Benevento e un paio di assessori regionali. E lo stesso Mastella figurava tra gli indagati. Presunzione d’innocenza per tutti, senz’altro. Ma come può il presidente del Consiglio respingere le dimissioni del ministro? E come può lo stato maggiore del Partito democratico, Veltroni in testa, attenersi alla stessa linea?
Qui non si tratta di stabilire in anticipo la colpevolezza di qualcuno. Si tratta di decidere se va condivisa oppure no, sul piano politico, la posizione di attacco alla magistratura che Mastella ha esposto in Parlamento, parlando da responsabile della Giustizia ancora in carica. Con le parole non si scherza, nemmeno nell’Italia di oggi. Dire no alle dimissioni, significa dire sì a quella posizione di scontro frontale. Significa trasformarla nella linea di tutto il governo, di tutto il centro-sinistra (salvo Di Pietro, a quanto pare).
Si capisce che il premier è disposto a tutto pur di non assistere al collasso della maggioranza. Financo ad alimentare, forse senza rendersene conto, un nuovo capitolo del conflitto fra politici e magistrati. Come ai tempi di Berlusconi. Ma qui è in gioco qualcosa di più importante delle sorti di un Governo traballante e asfittico. È davvero in gioco la credibilità residua della politica. Il buco nero la sta inghiottendo, insieme alle timide speranze di riforma e ai primi risultati nel risanamento dei conti. Lo sfondo del dramma è quello che conosciamo: dalla spazzatura sparpagliata senza rimedio nelle strade della Campania (ancora la Campania…) ai rapporti fra Stato e Chiesa regrediti di decenni, come ha sottolineato Carlo Azeglio Ciampi.
È in queste condizioni che si pensa di tornare alle elezioni? Oppure: è in queste condizioni che si ritiene di andare avanti ancora a lungo? Il referendum sulla legge elettorale è una risposta, una delle tante possibili. Rischia di apparire una mezza rivoluzione, come l’inizio di una valanga distruttiva ma salvifica, perché dall’altra parte c’è uno spettacolo quotidiano che è ormai intollerabile.
Solo un personaggio, in questa confusione, può dare un’autentica, nobile prova di dignità. È Clemente Mastella. Mantenga le dimissioni, non si faccia avviluppare dalla solidarietà “bipartisan”. Faccia quello che ha annunciato, non dia retta a opinioni interessate. Eviterà ulteriori pasticci politici a un centro-sinistra tremebondo e potrà difendersi a fronte alta. Come è giusto che sia. (da il sole24Ore)
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