Sciopero tir

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Alcuni camionisti pranzano sull’autostrada A1, all’altezza della diramazione di Roma nord Fiano Romano. Nel Viterbese ci sono quattro blocchi: all’uscita Viterbo-Nord della trasversale, all’altezza del km 80 dell’Aurelia nei pressi di Tarquinia, al casello autostradale di Orte e al km 40 della Cassia, vicino a Monterosi.

L’Italia sotto il camion

In Italia è sufficiente che piova per quarantott’ore perché scatti l’emergenza alluvioni; che si interrompa per quarantott’ore il rifornimento di metano russo perché scatti l’emergenza energetica; che i Tir smettano di muoversi per quarantott’ore perché ci troviamo senza carburante, senza medicine, senza giornali. La nostra è una vita che si svolge perennemente sul filo dell’emergenza legata ad avvenimenti naturali, condizionata dalle incertezze e delle mutevolezze della situazione politica internazionale, vittima di una cronica inadeguatezza nell’affrontare certe vertenze sindacali nel settore pubblico. I governi passano, le maggioranze si alternano ma il problema dell’autotrasporto (come quelli degli assistenti di volo, dei macchinisti delle ferrovie o dei tassisti) rimane invariato, o, peggio, si aggrava…

Ancora una volta il governo, come molti altri suoi predecessori, è stato colto gravemente di sorpresa. Si è ripetuto anche in questo caso il vecchio copione di incomunicabilità tra la burocrazia (e più in generale la classe politica) e una categoria produttiva: promesse vaghe, politiche del rinvio, forse un certo tono di sufficienza, un sostanziale disinteresse della burocrazia pubblica per gente che lavora troppe ore al giorno e che, nella stragrande maggioranza dei casi, proprio non si arricchisce. Non c’è alcun dubbio che, per quanto riguarda le rivendicazioni immediate, gli uomini dei Tir abbiano ragioni da vendere.

Chi blocca le autostrade lo fa perché esasperato, gioca sulla propria pelle oltre che sul proprio portafoglio e dobbiamo credere quando afferma che non ce la fa più a tirare avanti.

Non c’è ugualmente alcun dubbio che questa esasperazione ha portato, nella giornata di ieri, a inaccettabili limitazioni delle libertà personali dei cittadini, da quella di muoversi a quella di lavorare (per gli autotrasportatori che non hanno aderito allo sciopero e per i lavoratori che, a causa del blocco, sono arrivati in ritardo al lavoro o non vi sono arrivati affatto). Lo Stato ha mostrato di non avere il controllo del territorio e appare gravemente impotente a ripristinare una situazione di legalità senza un uso massiccio della forza: è ben difficile che gli autotrasportatori levino spontaneamente i blocchi grazie a una mera ordinanza di precettazione che molte delle loro associazioni giudicano illegittima.

È ragionevole prevedere che alla fine la categoria otterrà molte delle cose che chiede e che avrebbe potuto ottenere senza uno sciopero con altri meccanismi di contrattazione ma è ben più importante il contesto in cui queste richieste finiranno per essere accettate. In questo momento, infatti, a destra come a sinistra e al centro, l’Italia sta ridisegnando il profilo della propria rappresentanza politica e la vertenza ne è un primo, poco lusinghiero, banco di prova.

Se a seguito di questo ridisegno, si sarà semplicemente messa una toppa sulla vertenza, allora è inutile fondare nuovi partiti o cambiare il nome di quelli esistenti. Si fa un gran parlare di «discontinuità» ma la mancanza di idee dimostrata in occasione di quest’agitazione costituisce la più preoccupante delle continuità: si andrà avanti così fino al prossimo sciopero, quando i medesimi problemi si ripresenteranno aggravati.

Le nuove forze politiche devono pensare in tempi lunghi, mentre il loro orizzonte pare assai spesso non andare oltre il trimestre o il semestre. Pensando in tempi lunghi si giunge inevitabilmente alla conclusione che, se da un lato occorre garantire meccanismi meno rigidi per le tariffe dell’autotrasporto ed eliminare l’abusivismo, dall’altro occorre fare accettare alle categorie dell’autotrasporto un programma decennale o addirittura pluridecennale in cui l’autotrasporto abbia un’importanza minore dell’attuale: un programma fatto di maggior traffico merci sulle ferrovie, con gli investimenti che comporta, di un maggior utilizzo del trasporto fluviale, specie nella Pianura Padana, delle «autostrade del mare» e di tutto ciò che serve per renderle funzionanti.

Queste cose, però, non sembrano interessare nessuno, al di là di ristrette cerchie di addetti ai lavori, mentre l’opinione pubblica è caldamente invitata a dimenticare le difficoltà delle code autostradali (con o senza i blocchi dei Tir) e a contemplare sui suoi televisori l’ennesima puntata del teatrino della politica, con l’onorevole Tizio che polemizza con il senatore Caio.

Non sono queste le condizioni per una rinascita civile e per una ripresa economica, non è così che si stimola la produzione; siamo ancora – per poco – la sesta o la settima economia del mondo e abbiamo tutte le premesse per scendere bruscamente in questa classifica. Già ci sentiamo più poveri e rischiamo di diventare irrilevanti nel contesto mondiale; e questo anche grazie ai blocchi dei Tir, segno tangibile di un più generale blocco di idee in un Paese che non sembra sapere né come muoversi né dove andare. MARIO DEAGLIO per la Stampa

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Il governo non sa quello che fa, e il peggio deve ancora arrivare. In un Paese – l’unico in Europa in cui l’80 per cento dei trasporti avviene su gomma – è pura follia trascurare i camionisti soffocati da mille problemi. Significa andare incontro alla débâcle nazionale. Dopo due giorni – siamo al terzo – di sciopero chiunque l’avrebbe capito. Prodi e la sua squadra di incompetenti, invece, non si rendono neanche conto di prepararsi al suicidio. E vanno incontro alla morte per non cedere alle richieste della categoria, cioè sgravi fiscali e agevolazioni (su gasolio eccetera) per un totale di 570 milioni di euro. Forse ignorano o fingono di ignorare che i “padroncini” non hanno una controparte con cui trattare se non l’esecutivo. E che in mancanza di risposte serie non hanno altro modo, all’infuori della protesta clamorosa, per ottenere l’indispensabile a proseguire nell’attività. Si consideri: negli ultimi tempi 17 mila ditte hanno chiuso per disperazione; i costi di gestione uniti a una pressione fiscale asfissiante sono insostenibili.

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