Per non dimenticare Enzo Tortora

Memoria corta, pare essere un male che affligge il Bel Paese. Sono venti anni che Enzo Tortora se ne è andato. Enzo Tortora (Genova, 30 novembre 1928 – Milano, 18 maggio 1988) è stato un giornalista, conduttore radiofonico e conduttore televisivo italiano. È stato deputato per il Partito Radicale al Parlamento Europeo, candidatura arrivatagli in segno di sostegno per una clamorosa vicenda giudiziaria dalla quale è uscito completamente riabilitato pochi mesi prima di morire.

Estratto dallo speciale di Gianni Minoli su Enzo Tortora per la serie “La Storia siamo noi” di Rai Educational.
Era un presentatore televisivo molto noto, molto quotato, un conduttore – come si dice oggi – da 28 milioni di telespettatori. Incarnava un certo perbenismo borghese e faceva un uso piuttosto lacrimevole – alla Raffaella Carrà dei giorni nostri, se vogliamo – del più potente mezzo di comunicazione. La sua figura pubblica, certamente, non era a tutti gradita.
Finì, all’improvviso, in un tritacarne allestito dalla procura di Napoli sulla base di un manipolo di “pentiti” che prese ad accusarlo di reati ignobili: traffico di droga ed associazione mafiosa. Con lui – prima che quell’operazione si sgonfiasse come un palloncino – finiranno nel tritacarne altre 855 persone
Il suo arresto fu un evento mediatico. Prima di trasferirlo in carcere i carabinieri lo ammanettano come il peggiore dei criminali e gli allestiscono una sorta di passerella davanti a fotografi ed operatori televisivi.
L’Italia si spacca letteralmente in due tra innocentisti e colpevolisti. E la stampa, dichiaratamente forcaiola, riesce a dare il peggio di sé.
E’ la quasi estate del 1983. Comincia il “caso di Enzo Tortora”, vittima sacrificale degli isterismi e dei pressappochismi dell’antimafia.
Con Tortora la giustizia italiana fa un salto indietro di qualche secolo, coprendosi letteralmente di vergogna. Un gruppo di magistrati mostra i suoi lati più bui. Il presentatore televisivo viene tenuto in carcere per sette mesi, ottenendo appena tre colloqui con i suoi inquirenti. Gli indizi che lo accusavano sono debolissimi, praticamente inesistenti: oltre alle parole dei “pentiti”, soltanto un’agendina trovata nell’abitazione di un camorrista. Un nome scritto a penna e un numero telefonico. Solo dopo lungo tempo si saprà che quel nome non era “Tortora”, ma “Tortosa” e che il recapito del telefono non era quello del presentatore.
Nel giugno del 1984 Enzo Tortora – nel frattempo divenuto il simbolo delle tragedie della giustizia italiana – viene eletto deputato europeo nelle liste dei radicali che ne sosterranno sempre le battaglie libertarie.
Il 17 settembre 1985 (ad oltre due anni dall’arresto) Tortora viene condannato a dieci anni di galera. Nonostante l’evidenza, le accuse degli 11 “pentiti” (definiti da un giornale “la nazionale della menzogna”) hanno retto al dibattimento.
Con un gesto nobile, l’ormai ex divo della TV – protetto dall’immunità parlamentare – si consegna. Resterà agli arresti domiciliari.
Il 15 settembre 1986 (a più di tre anni dall’inizio del suo dramma) Enzo Tortora viene assolto con formula piena dalla corte d’Appello di Napoli.
Il 20 febbraio 1987 torna sugli schermi televisivi.
Il 17 marzo 1988 Tortora viene definitivamente assolto dalla Cassazione.
Il 18 maggio 1988, stroncato da un tumore, Enzo Tortora muore.
Resterà per sempre il simbolo di una giustizia ingiusta. Che di macroscopici errori, dopo di lui ne commetterà – purtroppo – ancora molti (da www.misteriditalia.com).
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Questa è la più allucinante vicenda di malasorte, per chi ci crede, nella storia della tv italiana. Tutto ruota simbolicamente intorno al 17, un numero che per la smorfia napoletana vuol dire, guarda caso, “la disgrazia”. E la disgrazia di uno dei più grandi personaggi del nostro piccolo schermo, Enzo Tortora, comincia con l’arresto alle 4 e mezzo di mattino di un venerdì 17, nel giugno del 1983, con l’accusa di associazione a delinquere di stampo camorristico.
In un altro sfortunato giorno 17, nel settembre dell’85, l’assurda vicenda giudiziaria porta alla dura condanna di Tortora, 10 anni e 6 mesi di reclusione. Ma di 17 arriverà pure l’assoluzione, nel marzo dell’86, una sentenza che viene confermata dalla Cassazione sempre il 17 (nel giugno dell’87) e chiude almeno l’incredibile calvario giudiziario.
Cinque anni di galera e arresti domiciliari, di interrogatori e processi con accuse inventate, di grottesche indiscrezioni date in pasto ai giornali e alla tv, di verbali di pentiti non attendibili e di polemiche politiche. E, alla fine, nemmeno un anno dopo, nella cupa notte del 17 maggio 1988, l’agonia fisica vera e propria di Enzo Tortora nella stanza 304 della clinica Città di Milano: a divorarlo è un cancro, diagnosticato qualche mese prima.
Ma, ben al di là della sfortuna e delle coincidenze del 17-disgrazia, il caso Tortora porta indelebilmente il tragico segno dell’umano, purtroppo umano. Forse, addirittura, di un complotto politico-giudiziario. Adesso siamo ormai nel ventennale dalla straziante morte di Tortora ed è ingiusto saperlo così dimenticato.
È stato uno straordinario “present-autore”, un inventore e conduttore di trasmissioni popolari, al pari forse solo di Corrado, e più ancora di Mike Bongiorno o Pippo Baudo. Non merita certo l’oblio che, troppo spesso, gli è toccato persino nella sua Rai. Il suo ultimo show, un mercatino sentimentale intitolato Portobello, inchiodava 20 milioni di spettatori al venerdì sera sulla seconda rete della Rai (28 milioni era stato addirittura il record d’ascolto precedente all’arresto).
Portobello è stato il programma dei programmi con la gente comune, l’hanno ricopiato poi in mille modi e riciclato a spezzoni in tante altre trasmissioni. Anche la lezione di quella sua tragica e clamorosa vicenda d’ingiustizia, che non deve apparirci così lontana, rischia di essere, purtroppo, ancora molto attuale.
LA SOFFIATA POLITICA
Il caso Tortora per me comincia verso le 15 del caldo pomeriggio del 16 giugno, a Milano, in via Fava, zona Melchiorre Gioia, dietro la Stazione Centrale, dove aveva sede allora Il Giorno. Ero il responsabile delle pagine spettacoli, una posizione guadagnata sul campo a 24 anni come cronista d’indiscrezioni sulla televisione. Prima della consueta riunione del pomeriggio il direttore, Guglielmo Zucconi, mi convoca nella sua stanza e, insolitamente, mi fa segno di accostare la grande porta di legno del suo studio, che in genere tiene sempre aperta. Mi guarda da sott’occhi con il tono un po’ più grave del solito, lui che era sempre così leggero e bonario. «Vedi un po’ tu di capirci qualcosa», sono le sue parole, «perché si dice che stiano per arrestare un grosso personaggio dello spettacolo in un blitz sulla camorra. L’indiscrezione filtra dal Palazzo della giustizia di Napoli, ma pare sia buona…Un uccellino mi ha cacato sulla spalla…».
Zucconi, che era stato l’inventore della maschera di Scaramacai e autore di varietà, usava sovente queste espressioni colorite per indicare che l’informazione arrivava da un alto livello politico o istituzionale. «Potrebbe essere un nome sulle ultime lettere dell’alfabeto, mi ha suggerito la mia fonte…», continua il direttore. «Ho risposto subito: “Con la Z non mi viene in mente nessuno; escluderei proprio la V di Vianello… Alla U non saprei proprio chi dire…Alla T, boh, a chi devo pensare? A Tognazzi? O magari a Tortora, che ha pure un cognome napoletano?”. Va’, vai sopra, fai qualche telefonata e torna a riferirmi».
IL PRIMO AVVERTIMENTO
Un po’ scioccato e pure divertito, per lo show del grande indimenticabile maestro Zucconi, provo a cercare subito Tortora attraverso la fedelissima collaboratrice Gigliola Barbieri, la sua Barbie. Da poco avevo maturato un discreto rapporto di stima e di confidenza con il pur difficile personaggio. Tutto era cominciato con un piccolo diverbio durante una conferenza stampa a Retequattro: nelle pause del suo impegno in Rai, Tortora collaborava con la rete privata allora mondadoriana, dove si esercitava come intrattenitore di politica-spettacolo “ante litteram”. Il suo rotocalco Cipria su Retequattro è considerato l’antesignano di tutti i Porta a porta. In quel periodo Tortora preparava con Pippo Baudo addirittura le tribune politiche elettorali di Retequattro, con la formula nuova della presenza della gente comune e il titolo Italia parla.
Verso le 16, finalmente, raggiungo al telefono il presentatore che stavo inseguendo da un’ora. È a Roma, in riunione. Gli riferisco, trafelato, delle voci di un suo imminente arresto nell’ambito di una grande retata di camorristi, e Tortora reagisce con divertita calma: «Ma si figuri! Son qui che lavoro, per le nuove tribune politiche di Retequattro. Domani mattina ho appuntamento in Rai per parlare del prossimo ciclo di Portobello».
Torno da Zucconi, riferisco la smentita ma apprendo nuovi particolari. «Guarda che mi danno la notizia come confermata. E forse c’è di mezzo davvero pure Tognazzi», mi dice deciso il direttore. Bisogna considerare che, a quel tempo, Guglielmo Zucconi, padre di Vittorio, il quale è oggi una grande firma di Repubblica e direttore di Radio Capital, era un giornalista di lungo corso tra i più noti, di rango pari ai Montanelli e ai Biagi, per intenderci. Oltrettutto era appena stato parlamentare democristiano, dirigendo il settimanale ufficiale del partito cattolico La discussione. Non potevo non credergli.
LA SECONDA TELEFONATA
Stavolta, più preoccupato che divertito, torno a richiamare Tortora. «Scusi se disturbo di nuovo, ma mi confermano che l’indiscrezione è attendibile: non potrebbe verificare lei direttamente in qualche modo?». E mi sento rispondere con qualche battuta al fulmicotone: «Sì, è confermato: ci sono dentro appunto Tognazzi e Tortora… Manca solo Vianello, così siamo a posto: il cast è al completo! Mah, chissà come nascono certe stranezze… La saluto, caro Martini, ci sentiamo per cose più serie».
La notte a Roma, nella stanza d’albergo al Plaza di via del Corso, dove verrà poi arrestato, il presentatore ride di gusto con la sorella Anna, raccontando le nostre telefonate. Aggiunge che, in serata, altri cronisti lo hanno cercato per segnalargli la stessa indiscrezione.
Prima dell’ultima buonanotte da persona normale, Tortora mostra tutto fiero alla sorella un maialino di porcellana che ha appena acquistato per la diletta figlia Silvia, esattamente uguale al primo salvadanaio che le aveva regalato da piccola. Silvia non lo avrà mai, perché i carabinieri che eseguono l’arresto smontano e sequestrano pure quell’innocuo oggettino alla ricerca di droga. Il maialino sparisce in caserma prima della raccapricciante sfilata di Tortora in manette organizzata per la ripresa delle telecamere. Mentre sale sul cellulare che lo trasporterà verso la cella 16 bis di Regina Coeli, Tortora è travolto da flash e telecamere. Vola pure qualche insulto. “Ladro, farabutto, ipocrita, faccia di merda!”. E, invece, dovrebbero dargli del coglione, penso io sconsolato: è quello che si merita dopo che da 12 ore era stato avvertito.
“HA VIOLENTATO LA MADONNA”
Tre mesi dopo l’arresto, dal carcere di Bergamo, Tortora mi scrive la prima delle lettere che ho ritrovato, dove si legge tra l’altro: «Comunque, ricordi. Se le telefonassi, un giorno, dicendole che la cercano perché ha ingravidato la Madonnina, sul Duomo, beh, non rida. Scappi. Ma scappi sul serio, e non si fermi che oltreconfine. Ormai qui sono capaci di tutto». E, in effetti, mi ricordo con amarezza che già il giorno dopo il blitz non si parlava d’altro ossessivamente che di “Tortora camorrista”.
Il mio direttore, Zucconi, mettendomi la mano sulla spalla, mi confida ancora: «Guarda, lo so che sei un tipo buono e ti affezioni alle persone. Lo so che ti sembra incredibile che ieri Tortora ti abbia risposto in quel modo… Ma mi confermano che ci sono cinque mesi d’indagini dietro al blitz di ieri, e anche Rognoni mi ha detto che la polizia e i giudici si sono mossi a ragion veduta…».
Virginio Rognoni, esponente Dc della stessa corrente di sinistra, personaggio di casa tra Pavia e la Milano de Il Giorno. Il governo di allora si impegnò al massimo perché quella retata anticamorra, con dentro un nome così grosso e imprevedibile, potesse offuscare ben altri scandali di cui si parlava da mesi, come il caso legato al rapimento di un importante esponente Dc di Napoli. Il presidente Sandro Pertini, infine, si erge a intransigente difensore della magistratura persino dinanzi agli appelli innocentisti dello scrittore siciliano Leonardo Sciascia: «Se ci sono prove, è l’unica considerazione valida dinanzi alla giustizia».
BERLUSCONI LO DIFENDE
Subito a caldo dopo il clamoroso arresto, mentre i telegiornali e i quotidiani d’Italia sbattevano il mostro Tortora in prima pagina, decisi di sentire l’opinione di Silvio Berlusconi. Da ormai quasi tre anni, precisamente il 30 settembre dell’80, aveva fondato Canale 5 e il successo gli sorrideva, come sempre, tra lo scetticismo di molti. Dopo avere strappato Mike Bongiorno alla Rai, puntava proprio all’ingaggio di Tortora, per superare finalmente la Rai anche al venerdì sera. Gli telefonai
il sabato ad Arcore. «Scriva pure che oggi io non provo nessuna soddisfazione», mi dice, «per il danno indirettamente subito dalla concorrenza, ma soltanto molto dispiacere per Tortora. È una cosa incredibile, anzi io non ci credo proprio. E sono sicuro che si chiarirà tutto presto».
Finite le dichiarazioni da pubblicare, Berlusconi si dilungò in spiegazioni con il giovane cronista. «Evidentemente si tratta o di un clamoroso errore o di un complotto. Per averlo con noi gli ho offerto di tutto, gli ho detto che ero disposto persino a prenderlo solo per i programmi giornalistici, e non per uno show alla Portobello. Si è mosso anche Indro Montanelli, che gli ha proposto a mio nome di venire a Italia 1 per fare proprio “la tv di Tortora e Montanelli”. Ma lui niente. È molto attento alla sua immagine e non vuole rischiare con un’avventura nuova. Non parliamo, poi, dei soldi! Tortora è un tipo che non ha interessi economici, non ha problemi di denaro, non ha bisogno di nulla. È solo uno che fa molto bene il suo mestiere, lo ama tantissimo e non ha assolutamente nemmeno un vizio o un punto debole. Glielo assicuro, ho studiato molto bene il soggetto, dato che m’interessa molto. Le accuse che gli rivolgono mi fanno solo ridere: è come se dicessero che io ho rubato qualche milione di lire. A parte il fatto morale, guadagno di mio già mille e cento miliardi all’anno, figurarsi! Martini, glielo giuro: sono pronto a prendere Tortora anche dopodomani, e per fargli firmare il contratto con il mio gruppo andrei personalmente nel parlatoio di Rebibbia».
IL TELEGRAMMA DI BAUDO
Ma l’amarezza di Tortora era legata soprattutto all’atteggiamento della “sua” Rai, da subito cinicamente colpevolista. Il suo nome fu ignorato persino nello spettacolo per i trent’anni di storia della tv. «È indispensabile in democrazia un’alternativa a questa Rai Tv puro portavoce del potere», mi scrive in un’altra lettera, concludendo con la promessa: «Farei altri 9 anni di galera, come li feci al di fuori della Rai, per dimostrare a che punto l’Ente di Stato è ridotto».
Tortora riceve, però, tantissimi messaggi d’affetto dalla gente comune, prima di tutti dai poveri cristi qualunque dietro le sbarre. I carcerati, del resto, Portobello godevano da sempre di un occhio di riguardo, ed è uno dei motivi per cui era stato facile ai giudici trovare qualche vago elemento di contatto. Si muovono anche molti personaggi di primissimo piano: lo difendono pubblicamente Sciascia e Biagi, ma anche molto affettuosamente da subito Piero Angela e Raffaella Carrà. Anche Maurizio Costanzo si schiera pubblicamente dalla parte di Tortora, con una generosità che è difficile dimenticare, dato che era stato da poco pesantemente attaccato da Tortora.
Tace, invece, per mesi il collega Baudo, con cui pure Tortora stava lavorando a Retequattro la vigilia del suo arresto. Ma il giorno del suo 55° compleanno, nella cella al secondo piano del carcere di Bergamo, Tortora finalmente riceve anche un telegramma firmato Pippo Baudo. Il testo, forse perché destinato a passare al vaglio della censura carceraria, incredibilmente recita: «Caro Enzo, nel pieno rispetto della magistratura, ti porgo i miei migliori auguri».
Altro che rispetto! Fu un’indagine abborracciata come poche. La lente degli investigatori non si concentrò mai, per esempio, sulla singolare omonimia con un tale Rolando Tortora, che in quegli anni era, guarda caso, il colletto bianco della camorra nella Roma del potere politico. Secondo i giudici il Tortora delle agendine era Enzo, e basta: anche se i numeri di telefono non corrispondevano affatto.
Sono vari, dunque, gli indizi che portano a ricostruire quella vicenda come un complotto politico-giudiziario. E si resta di pietra ancora adesso, persino a riascoltare le ultime parole che Tortora ormai in agonia mormorò alla sua fedele collaboratrice: «Barbie, che disastro! Purtroppo so già che resterà un sogno persino il mio desiderio di lasciare almeno una lezione, affidando l’eredità al comitato per la giustizia giusta…». E, in fondo, ancora oggi, di questa allucinante vicenda d’ingiustizia resta solo l’amaro di una famosa vita distrutta così, ormai vent’anni fa o giù di lì (Paolo Martini per Chi).
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TORTORA INTORTORATO A TORTO DALLA DC PER “COPRIRE” IL CASO CIRILLO-BR SERVIVA EVENTO CLAMOROSO PER SOFFOCARE L’INTRECCIO POLITICA-CAMORRA
MINISTRO ANNUNCIÒ L’ARRESTO 24 ORE PRIMA: FAVORIRE UNA FUGA O SUICIDIO?
Può capitare di tutto nella vita, anche a un giovane cronista. Mi sono ritrovato a 24 anni in una scena da film, che tra l’altro c’è davvero in ‘Un uomo perbene’ con Michele Placido, anche se non ho mai voluto vederlo: ricostruisce l’allucinante vicenda giudiziaria di Enzo Tortora. A vent’anni dalla morte del grande presentatore, resta una pagina davvero amara e indigeribile.
Lavoravo al Giorno e mi dedicavo quotidianamente ai retroscena televisivi nell’ambiente milanese della Rai e dell’allora nascente impero di Canale 5. Facevo un po’ la posta a tutti i personaggi. Tortora lo braccavo spesso al venerdì sera dietro le quinte di Portobello, un programma da venti milioni e rotti di spettatori, il primo e il più copiato dei people-show, gli spettacoli con la gente comune. Con Tortora, come tanti, avevo avuto subito un bello scontro: il personaggio aveva un carattere spigoloso ed era un solitario. Ma alla fine, anche grazie alla stima della sua più stretta collaboratrice, Gigliola Barbieri, ero riuscito a costruire un filo diretto.
Il pomeriggio prima dell’arresto di Tortora fui convocato dal mio direttore di allora, Guglielmo Zucconi, un giornalista di lungo corso e di chiara fama, che era stato anche parlamentare Dc.
Zucconi mi disse di telefonare a Tortora perché gli era arrivata voce che fosse implicato in una retata anti-camorra. Ebbe modo di ripetermelo con molta insistenza una seconda e una terza volta nello stesso pomeriggio. Parlai con Tortora, che era a Roma per riunioni, una prima volta verso le 16, e di nuovo prima delle 20. La sua reazione fu sempre la stessa, divertita. «Sì, dica al suo direttore di metterci pure Tognazzi e Vianello, e il cast è fatto!».
Più tardi un cronista dell’Ansa di Napoli lo raggiunse con la stessa anticipazione, ma Tortora non si preoccupò di avvertire nessuno, nemmeno uno dei suoi amici avvocati. Si fece delle grandi risate pure con la sorella Anna, raccontandole le nostre telefonate prima di addormentarsi in una stanza dell’hotel Plaza a Roma. Alle 4 della mattina, quando i carabinieri lo buttarono giù dal letto, cercò solo di non farsi sequestrare il salvadanaio di porcellana a forma di maialino, ancora impacchettato, che voleva regalare alla diletta figlia Silvia. Mai avrebbe pensato che potessero smontarlo alla ricerca di droga. Fu chiuso in caserma e verso le 12 fu offerto alla pubblica gogna in manette per le troupe televisive, i paparazzi.
Era il 17 giugno del 1983. Tortora riuscirà a riprendersi dall’allucinante trafila di menzogne e pasticci tra giustizia e mass-media soltanto il 17 giugno dell’87, dopo l’assoluzione definitiva e una dura battaglia. Quattro anni di calvario, e poi la celebre sortita televisiva del rientro: «Dove eravamo rimasti?» si limitò a dire commosso alla prima puntata del nuovo Portobello. Ma non arriverà felice nemmeno al primo Natale dopo la fine dell’incubo. Un tumore lo divora in pochi mesi, e il 18 maggio dell’88 toglie il disturbo senza potersi dedicare alla causa della «giustizia giusta», che per Tortora era diventata qualcosa di più della sua stessa causa.
A distanza di anni, penso si possa finalmente comprendere in quale clima politico s’inscriva l’affaire Tortora. Nella Democrazia Cristiana è al potere l’irpino Ciriaco De Mita, con il capo doroteo napoletano Antonio Gava determinante a sostenere la maggioranza, ma le difficoltà sono enormi. L’Unità e i giornali d’opposizione hanno appena montato in modo pasticciato il «caso Cirillo», intorno a una brutta vicenda di terrorismo, camorra e riscatti legata al rapimento di un ras politico locale di Gava, l’assessore Ciro Cirillo.
E la reazione caparbia di una parte della Dc non si fa attendere: c’è bisogno di un caso giudiziario talmente eclatante da togliere ogni dubbio all’opinione pubblica. Tant’è che si legge in un primo editoriale del Giorno, e ricordo bene il direttore Zucconi che mi confida di aver personalmente parlato con il ministro Rognoni prima di scriverlo: «L’arresto di Tortora e contemporaneamente di altri presunti 855 camorristi prova che non è vero che in questo paese non cambia nulla, non è vero che le leggi o sono sbagliate o se sono giuste non vengono applicate, non è vero che esistono gli intoccabili».
Al giovane cronista di allora restano altri due confidenze da rivelare. Ai margini del terzo interrogatorio del presentatore prima del processo, il 9 marzo del 1984, Tortora viene avvicinato da un alto ufficiale dei Carabinieri che lascia intendere di essere un pezzo grosso dei servizi segreti e gli propone una trattativa: «La prego, ci dia il modo di uscirne. Le persone e le istituzioni molto importanti che rappresento le chiedono solo questo: si limiti ad ammettere almeno di aver fatto uso personale di cocaina, qualche volta, tanto lo fanno tutti nel suo mondo. Una piccola retromarcia, e la chiudiamo lì per sempre».
L’ultimo retroscena inedito riguarda la madre del boss milanese della camorra Francis Turatello. L’anziana signora, che era un’assidua telespettatrice di Portobello, mise a disposizione dell’assistente di Tortora, Gigliola Barbieri, l’avvocato dell’organizzazione. Alla fin fine Turatello era stato trucidato in un carcere di massima sicurezza proprio da uno degli accusatori improvvisati del presentatore, Pasquale Barra, che si guadagnò il soprannome di ‘O Animale perché divorò le viscere della sua vittima. Per settimane la Barbieri si dedicò alla ricerca di un qualche indizio di un coinvolgimento, spulciando tra le carte di questo avvocato, e a sua volta il legale indagò con cura tra i molti affiliati della camorra al Nord. Nessuna traccia. Pochi mesi dopo l’avvocato fu brutalmente freddato davanti all’uscio del suo studio.
Sono tanti, dunque, i misteri anche del caso Tortora che rimangono aperti: i testimoni ancora vivi potrebbero finalmente parlare. Perché un ministro volle passare l’informazione in modo che Tortora fosse avvertito il giorno prima? Magari per farlo scappare o spingerlo a qualche altro gesto inconsulto che sarebbe poi stato facilmente interpretabile come prova della colpevolezza? Perché i servizi segreti provarono a trattare? Che cosa è successo tra la camorra di Cutolo e il potere politico? Forse, semplicemente, certi leader democristiani nel governo del Paese continuarono al peggio negli Anni 80 la tradizione dei fanfaniani, che della grande mamma Rai avevano fatto, come dalla celebre definizione che costò il licenziamento a Tortora nel ’69, “un jet condotto da un gruppo di boy-scout” (Paolo Martini per La Stampa).

Aggiornamento al 01-05-2013
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