Leso il prestigio della magistratura

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“Magistrati, l’ultracasta”, di Stefano  Liviadiotti (Bompiani, pagg. 259, € 17 ) libro su privilegi, stipendi d’oro e sentenze truffa della casta dei magistrati, si apre con una storia davvero esemplare che così si può riassumere: un magistrato viene sorpreso in un cinema di  periferia, dove ha promesso soldi a un ragazzino per appartarsi con lui. Scattano le manette e la sospensione dal lavoro. Poi, però, dopo tre gradi di giudizio e grazie a un’amnistia, tutto è annullato. Il Consiglio Superiore della Magistratura lo riabilita e dopo una sentenza grottesca è arrivata la promozione che fa impennare gli stipendi di migliaia di suoi colleghi (costo per lo Stato 70 miliardi di vecchie lire). Nel libro vi sono i verbali segreti di tutta la storia.
“Chi sbaglia non paga. Mai”.  Uno stato nello Stato, sintetizza Livadiotti, penna particolarmente appuntita dell’Espresso , “governato da fazioni che si spartiscono le poltrone in base a una ferrea logica lottizzatoria e riescono a dettare l’agenda alla politica”. E ancora: “Un formidabile apparato di potere che, sventolando il sacrosanto vessillo dell’indipendenza, e facendo leva sull’immagine dei tanti magistrati-eroi, è riuscito a blindare la cittadella della giustizia, bandendo ogni forma di meritocrazia e conquistando per i propri associati un carnevale di privilegi”.
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“Una casta potentissima e sicura dell’impunità. Dove lo spirito di appartenenza e l’interesse economico possono portare a superare l’imbarazzo di coprire qualunque indecenza. Dove il vantaggio per la categoria finisce a volte per prevalere su tutto il resto e l’omertà è la regola. Dove in certi casi giusto la gravità dei comportamenti riesce a offuscare la loro dimensione ridicola…”.
Esagerazioni? Basta sfogliare il libro, le storie che vi sono raccontate, -vicende che hanno destato clamore e sconcerto- e ci si può rendere conto di come sia ancora oggi valido l’invito di Gaetano Salvemini di innanzitutto fuggire, e poi pensare a difendersi, quand’anche si fosse accusati d’aver stuprato la Madonnina del Duomo di Milano; e la raccomandazione di Giuseppe Prezzolini – e si era nel 1911! – a Giovanni Amendola di star il più lontano possibile dalle aule di tribunale.
Liviadiotti riassume così la situazione: “Quella di giudici e pubblici ministeri è diventata negli anni la madre di tutte le caste…le nostre toghe hanno le paghe più alte di tutta l’Europa continentale, possono arrotondare lo stipendio con lavori extra, incassano pensioni d’oro, sono protette da una scala mobile tagliata su misura. E quanto a ferie sono secondi solo ai pargoli dell’asilo: 51 giorni ogni 12 mesi…Non solo fanno carriera a prescindere, come diceva Totò, ma quando prendono una cantonata sono riparo da ogni conseguenza. Perché una legge ha vanificato gli effetti del referendum attraverso il quale gli italiani si erano schierati in massa a favore di un riconoscimento della responsabilità civile dei magistrati…la giustizia domestica amministrata dalla sezione disciplinare del CSM è semplicemente una presa per i fondelli: giudici e pubblici ministeri hanno solo 2,1 possibilità su 100 di incappare in una sanzione, sempre comunque all’acqua di rose e, nell’arco di otto anni, quelli che hanno perso la poltrona sono stati lo 0,065 per cento”.
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Chi legge il capitolo “Malagiustizia” non può che esser percorso da un brivido lungo la schiena: si racconta come al tribunale di Roma si siano celebrate ben settanta udienze di un processo penale prima che qualcuno si accorgesse che l’imputato non era mai presente in aula per la “semplice” ragione che era morto(pag.25-27); cosa scandalosa solo per gli ingenui, par di capire, e peccato che non sia fatto il nome di quel magistrato che, giulivo, cinguetta: “A me è successo almeno una decina di volte di emettere sentenze e scoprire solo dopo che l’imputato era passato a miglior vita” . Si racconta come una causa sulla proprietà di alcuni terreni in Sicilia, iniziata all’epoca del congresso di Vienna (sì, quello del 1815) e che si conclude “solo” dopo 192 anni (pag.28-29); e si documenta come i tempi della nostra giustizia civile siano più lunghi di quelli del Gabon e di Sao Tome e Principe, e ci si piazzi meglio – gran consolazione! – dei tempi che occorrono per avere una sentenza in Congo! E veniamo alla durata dei processi e alla loro esasperante lentezza. Colpa di avvocati-azzeccacarbugli che cento ne pensano e ne fanno, perché è sempre buona regola rimandare il più possibile la sentenza? In parte sì, ma almeno loro fanno il lavoro per cui sono pagati dai loro clienti. Il fatto è, però, che “il più frequente tra i motivi del rinvio è l’assenza del giudice titolare, che nel 12,4 per cento delle udienze, praticamente in un caso su otto, non si presenta…secondo motivo di aggiornamento dell’udienza è l’omessa o irregolare notifica di atti all’imputato o alla parte offesa, che spesso è responsabilità diretta del magistrato pasticcione. O comunque dei suoi sottoposti, che avrebbe il dovere di controllare…Sommando anche i motivi meno ricorrenti, le toghe causano complessivamente il 25,7 per cento dei rinvii…(pag.32). Come sia, bisogna pensarci bene prima di accendere un procedimento a Lecce: si resta in attesa di un verdetto in media 1600 giorni, che va sempre meglio di quello che accade al tribunale di Sciacca, dove si registra “una durata media delle procedure fallimentari pari a 34,7 anni. Anche un processo semplice come quello per la restituzione di un anello di fidanzamento può andare avanti per 19 anni…”(pag.34).
Il catalogo degli orrori prosegue con il racconto delle cantonate e degli errori gravi: di come, per esempio, si possa finire in carcere per un “semplice” errore di traduzione costato allo sventurato protagonista della vicenda sei mesi di carcere al milanese San Vittore (pag.48); o essere rilasciati per una “distrazione” del Pubblico Ministero (pag.49); o, ancora, farla franca grazie al una “banale” omonimia (pag.49-50).
Ha fatto scandalo la vicenda del giudice del tribunale di Gela che in otto anni non ha trovato il tempo di scrivere le motivazioni di una sentenza che condannava a oltre un secolo di carcere pericolosi mafiosi affiliati al boss Piddu Madonna (e che per questo sono stati scarcerati); ma che dire di quel procuratore capo cui sono stati contestati: “L’omessa registrazione di 85.938 procedimenti penali di competenza del pubblico ministero…nonché di complessive 28.235 notizie di reato contro ignoti…la mancata esecuzione di 573 pene detentive…”, e che si è visto prosciolto da ogni addebito dal CSM “a causa della situazione di emergenza del suo ufficio”?
Alla fine del 2008 in un armadio della procura di Bologna sono stati scoperti 2.321 fascicoli di indagine lasciati marcire: “Il tribunale aveva fissato la data di inizio dei processi, ma le carte erano poi finire sotto chiave senza  che qualcuno si preoccupasse di procedere alla notifica delle parti. Dentro c’era l’intero codice: furti, truffe, ricettazioni, appropriazioni indebite, infortuni sul lavoro. Quasi tutto prescritto…”.
Tutto senza bisogno di alcuna amnistia, “semplicemente” perché “nessun pubblico ministero ha mai sentito la necessità di chiedere che fine avesse fatto la propria inchiesta. E i quattrini spesi per perizie, intercettazioni e quant’altro, sono andati in fumo…”.
Recente è anche il caso di un giudice per le indagini preliminari di Vicenza che produce una quantità di certificati medici grazie ai quali nel 2004 risulta impossibilitata a lavorare per 98 giorni e nel 2005 per ben nove mesi e mezzo. Solo che “a metà novembre di quest’ultimo anno, sul sito del GIP era uscito l’entusiasmante resoconto della regata veristica che la vedevano impegnata…” (pag.46). Di fronte alla solare evidenza, il CSM interviene e dispone il trasferimento d’ufficio e la perdita di un anno di anzianità. “A questo punto, sdegnata, s’è dimessa dalla magistratura, non prima però di aver scolpito due perle: ‘La giustizia ha tanti problemi seri e invece si perde tempo con questa storia della barca a vela…di che cosa devo vergognarmi, di aver portato i colori dell’Italia in Brasile?”.
Ogni pagina di questo libro è una vergogna, è una scudisciata per chi nutre fiducia nella legge e nel diritto. Ci si può limitare ai “sommari” dei vari capitoli: “Tre delitti su quattro senza un colpevole…La prescrizione che cancella decine di migliaia di reati…La condizionale che scatta ormai in automatico…Le carceri piene solo di extracomunitari e drogati. Un sistema che protegge i colletti bianchi e s’accanisce sull’aspirante suicida che ha tagliato le federe per farne un cappio…I tribunali tedeschi si autofinanziano per oltre il 45 per cento incassando tasse e diritti. Quelli italiani riescono a recuperare solo un dodicesimo di quanto spendono. Potrebbero reclamare centinaia di milioni di pene pecuniarie e spese processuali, ma se ne fregano. E lasciano più di un miliardo e mezzo di euro a marcire nei libretti di Poste Italiane Spa…”.
C’è poi il capitolo spinosissimo dei “signori delle tessere”. Pensate che la magistratura sia lottizzata, e che le varie correnti in cui è divisa l’Associazione Nazionale dei Magistrati siano trampolini per fare carriera? Non siete i soli. “Le correnti dell’ANM”, annotava Giovanni Falcone, “si sono trasformate in macchine elettorali…l caccia esasperata e ricorrente al voto del singolo magistrato e la difesa corporativa della categoria sono divenute…le attività più significative della vita associativa…nei fatti il dibattito ideologico è scaduto a livelli intollerabili…”. Falcone sapeva bene cosa diceva, essendo stato vittima di questi perversi meccanismi in almeno un paio di occasioni. “Per la prima volta”, si legge nella nota editoriale, “cifra per cifra, tutta la scomoda verità sui 9116 uomini che controllano l’Italia: gli scandalosi meccanismi di carriera, gli stipendi fino all’ultimo centesimo, i ricchi incarichi extragiudiziari…e parola per parola, le segretissime sentenze-burla della Sezione disciplinare…”. E’ tutto raccontato, tutto documentato.
SPECIALE ENZO TORTORA DI ANTONELLO PIROSO

Ottocentocinquantasei ordini di cattura, un primato. Furono spiccati dalla procura di Napoli il 17 giugno 1983, un venerdì. Qualcuno parlò di “venerdì nero per la camorra”. In manette finì anche Enzo Tortora. Tortora amava i libri, erano parte della sua vita. In “Cara Italia ti scrivo” scrisse: “Ecco la mia droga”. Parlava delle poesie di Rimbaud, delle commedie di Pirandello, i romanzi di Balzac, Zola e Laclos.
Dalle colonne del Giornale Montanelli parlò di “imputazione inverosimile”.
Una vignetta di Repubblica, invece, ritrasse il presentatore di Portobello dietro le sbarre con le parole nella nuvoletta: “Eppure il pappagallo non ha parlato”. Qualcuno non perse occasione per affibbiare al noto giornalista l’infamante etichetta del camorrista spacciatore di droga senza neanche attendere il processo. La stampa, come tutto il Paese, si divise in due partiti: innocentisti e colpevolisti. A dare corpo e sostanza all’inchiesta c’erano solo le accuse di un gruppo di pentiti. Il 14 gennaio 1986 arrivò la sentenza di condanna: duecentosessantasette pagine nelle quali si leggevano le motivazioni in base alle quali Tortora veniva condannato per associazione a delinquere di stampo camorristico e spaccio di stupefacenti. Una delle frasi vergate dai giudici nella sentenza lascia sgomenti, nonostante siano trascorsi ormai decine di anni: “Cinico mercante di morte, tanto più pernicioso sotto una maschera tutta cortesia e savoir faire”.
Eletto al parlamento europeo nel 1984, nelle liste del Partito radicale, Tortora portò avanti la sua battaglia per l’affermazione del principio del giusto processo, la certezza del diritto e la responsabilità civile dei magistrati. Battaglie dal sapore garantista, battaglie di civiltà contro la barbarie il cui apice era rappresentato dalla vicenda giudiziaria che aveva coinvolto – stravolgendola – la vita di Enzo Tortora. Ma smentendo chi faceva facili ironie accostando il suo nome a quello di un altro Vip che, una volte eletto si era dileguato (Toni Negri), Tortora non esitò un istante a dimettersi da Strasburgo. Lo fece il 31 dicembre 1985, rinunciando così, caso più unico che raro, all’immunità parlamentare. Il ritorno alla normalità Tortora fu assolto definitivamente dalla Corte di Cassazione il 17 giugno 1987, a quattro anni esatti dall’arresto. Dopo pochi mesi riprese in mano la sua vita. E lo fece con un memorabile discorso, subito dopo la sigla di Portobello. “Dunque, dove eravamo rimasti? Potrei dire moltissime cose e ne dirò poche. Una me la consentirete: molta gente ha vissuto con me, ha sofferto con me questi terribili anni. Molta gente mi ha offerto quello che poteva, per esempio ha pregato per me, e io questo non lo dimenticherò mai. E questo “grazie” a questa cara, buona gente, dovete consentirmi di dirlo. L’ho detto, e un’altra cosa aggiungo: io sono qui, e lo so anche, per parlare per conto di quelli che parlare non possono, e sono molti, e sono troppi; sarò qui, resterò qui, anche per loro. Ed ora cominciamo, come facevamo esattamente una volta”.
Enzo Tortora

“I magistrati sono un grande problema. La legge è uguale per tutti, tranne che per loro. Forse perché nei tribunali ce l’hanno scritto alle spalle e fanno fatica a girarsi. Bisogna cancellare le correnti organizzate perché le correnti sono giocoforza politicizzate”. Dice Giulio Andreotti nell’intervista. E riferendosi ai processi che ha dovuto affrontare dice: “quando ci ripenso, provo una rabbia incontrollabile. Essere sotto tiro per cose che hai fatto, passi. Ma cosi’ no. Hanno usato i processi per mettermi fuori gioco politicamente. E’ stato un momento di politica molto cattiva”. (Andreotti intervistato da La Repubblica).

Si può concludere con le parole di Montanelli: “Nella giustizia c’è un dieci per cento di autentici eroi pronti a sacrificarle carriera e vita: ma sono senza voce in un coro di gaglioffi che c’è da ringraziare Dio quando sono mossi soltanto da smania di protagonismo”.

1 Comment so far

  1. NeoItalia on 6 Giugno, 2010

    Magistrati, giudici, casta d’oro, ultracasta e intoccabili? Fatti, credenze, biologia, psicologia e filosofia dei privilegi…

    Non concordo con molte critiche e teorie dei magistrati casta d’oro o ultracasta piena di privilegi. Credo che dove siano più privilegi con meritocrazia e responsabilità arrivano le persone più intelligenti, creative, efficie…

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