Record di rimborsi elettorali

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Rimborsi annui in Euro dal 2004 al 2008 per Spese Elettorali sostenute dai partiti (da “La Stampa”)

E dal 14 aprile i partiti guadagnano il doppio. Lunedì prossimo, comunque vadano le elezioni, nelle sedi dei partiti qualcuno avrà una buona ragione per sorridere: i tesorieri. Sì, perché la legge che regolamenta i cosiddetti «rimborsi elettorali» – un euro per ogni voto – non prevede l’interruzione dei pagamenti in caso di interruzione della legislatura. In altre parole, i partiti continueranno a incassare fino a tutto il 2010 circa 100 milioni l’anno legati alla legislatura appena chiusa anticipatamente, ovviamente suddivisi tra loro sulla base del risultato elettorale del 2006. E altri 100 milioni (l’anno) arriveranno nelle loro casse da adesso fino al 2012.

Non c’è che dire, un discreto affare: un solo Parlamento, due rimborsi elettorali. Che poi potrebbero addirittura diventare tre, se c’è il «pareggio» o un accordo politico per nuove elezioni. Tutto dipende dalla legge, che per l’appunto sancisce che il «rimborso» (versato in cinque rate, la durata teorica della legislatura) non si interrompe in caso di voto anticipato. Una norma che peraltro crea anche qualche paradosso, con partiti «morti» che a mo’ di zombies continuano a incassare le rate del contributo pubblico anche dopo la loro presunta scomparsa. E il caso di Ds e Margherita.

Spot elettorale ufficiale della lista civica “Amici di Beppe Grillo – Roma”

Un voto in più (perduto ormai)

Rimborsi elettorali: così i micro-partiti divorano 11,5 milioni
Il banchetto della politica: una cinquantina le liste beneficiate dalle grandi formazioni nazionali. Basta l’1 per cento per spartirsi la torta

Daniele Martinelli ne L’Espresso commenta, tra l’altro, lo scandalo dei rimborsi elettorali,

Rimborsi elettorali, spesi 117 milioni e poi incassati 500
Alle politiche 2006 i partiti hanno speso un quinto dei rimborsi statali incassati: 117,3 milioni contro 498,5 milioni. Che i contributi pubblici per le spese elettorali andassero ben oltre i costi delle campagne per il voto era nell’aria. Ora a certificarlo è la relazione della Corte dei conti appena depositata a Montecitorio.
I costi
Le spese accertate dalla Corte, benché moderate rispetto alle elargizioni dello Stato, sono tuttavia consistenti. Significativo, ad esempio, l’investimento di Forza Italia che da sola ha speso quasi la metà di quanto hanno sborsato tutti i partiti insieme: il tesoriere Rocco Crimi ha messo sul piatto oltre 50 milioni di euro. Quasi il doppio rispetto ai fondi (circa 28 milioni in tutto) impegnati dal vecchio Ulivo (Ds e Margherita, che parteciparono separatamente al Senato e uniti alla Camera).
Gli incassi
Ma i costi assumono l’aspetto di briciole quando vengono comparati agli incassi dovuti ai partiti per i cinque anni di legislatura, peraltro interrotta dal voto anticipato. Forza Italia potrà consolarsi con un “avanzo” rispetto a quanto speso di quasi 79 milioni di euro e a Ds e Margherita insieme rimarrà un tesoretto di oltre 130 milioni. Un bel patrimonio per il Partito democratico se non fosse che i due “padri fondatori” si tengono gelosamente nelle rispettive casse i fondi arrivati dallo Stato.

Stessa dolce musica per tutti gli altri partiti: ad An resteranno in cassa oltre 59 milioni, a Rifondazione oltre 33, all’Udc poco più di 24 milioni e alla Lega oltre 17 milioni. In totale alle segreterie sono fluiti oltre 381 milioni di euro. Un dato che fa gridare allo scandalo i Radicali, tradizionali oppositori del finanziamento pubblico dei partiti, a partire dal referendum abrogativo del ’93. «La media annuale dei fondi pubblici ai partiti – ha calcolato Maurizio Turco – è aumentata del 600% rispetto al ’93, ultimo anno di finanziamento pubblico».

I rilievi
Quanto ai tetti di spesa, la Corte non ha riscontrato sforamenti. Ha tuttavia segnalato delle irregolarità nel conto consuntivo del Prc che non ha presentato idonea documentazione per un importo di spesa di circa 500mila euro. Multato invece “Progetto Nord Est”, il movimento di Giorgio Panto (l’imprenditore televisivo veneto morto qualche mese dopo le elezioni), accusato di aver acquisito in modo irregolare gli 800mila euro spesi per la propaganda elettorale.

Quali spese dovrà mai sostenere il partito «Insieme per Bresso» per giustificare un finanziamento pubblico di circa 110mila euro ogni anno? E l’«Unione sudamericana emigrati italiani» con 9mila, la lista «Associazioni italiane in Sudamerica» per 63mila euro, «l’Aquilone del presidente» quasi 300mila, la «Civica Piero Marrazzo» che incasserà oltre 300mila euro almeno sino alle prossime regionali? Non hanno sedi né dipendenti, non stampano l’ombra di un bollettino e hanno già abbondantemente coperto i costi reali sostenuti in quei quaranta giorni di campagna elettorale a supporto dei partiti veri, quelli nazionali, che oltretutto si facevano carico delle spese più forti. E però partecipano anch’essi al gran banchetto del finanziamento pubblico della politica, a dimostrazione che nonostante gli esorcismi contro il bipartitismo, le paure che il Pdl di Berlusconi e il Pd di Veltroni finiscano col fagocitare ogni cespuglio, il nostro è ancora il Paese del particulare e dei mille campanili. Piccolo sarà anche brutto, ma rende. Sono una cinquantina, i partiti che non ci sono ma che consumano come se ci fossero. Tutto regolare ovviamente, ognuno incassa la sua tranche annuale in proporzione alla forza dimostrata nelle urne, i più in quelle delle elezioni regionali, alcuni sommandola a quella delle europee, altri fondando il titolo nel parlamento nazionale. Ogni anno l’assegno è di 3.818.745 euro. Che va moltiplicato per tre (gli anni che mancano alla fine naturale della legislatura da poco conclusa). Totale: 11,5 milioni di euro meno qualche spicciolo. Tutto regolare ma illogico, frutto perverso dell’escamotage messo in piedi dai partiti nazionali per aggirare il referendum che nel 1993 mise fine al finanziamento dello Stato ai partiti. Provarono con le firme nelle dichiarazioni dei redditi, ricordate?, come per le opere religiose: ma dopo due anni, poiché pochi firmavano, anzi nessuno a confronto dell’Irpef devoluto alle religioni, insabbiarono tutto puntando sui «rimborsi elettorali». Fittizi e nominali ovviamente, perché oggi si è arrivati a 5 euro per ogni iscritto alle liste elettorali (indipendentemente dall’esercizio effettivo del voto) che si moltiplicano ad ogni elezione della Camera, del Senato, delle Regioni e dell’Europarlamento. Un mare di soldi, 200 milioni d’euro all’anno a copertura più che abbondante delle spese sostenute per le elezioni, ma che servono principalmente a sostenere la vita quotidiana dei partiti, tra un turno elettorale e l’altro. «Rimborsi elettorali» però, si devono chiamare. Per non evocare il «finanziamento pubblico» vietato dal popolo sovrano. E per giustificare la finzione, occorre sopportare che del marchingegno approfittino anche partitini nati all’inizio di una campagna elettorale e svaniti con l’elezione di uno o più consiglieri, quando va bene un parlamentare e spesso nemmeno quello. Gli eletti poi stanno a posto, prendono indennità, usano uffici e personale dell’istituzione, della loro lista nessuno si ricorda più. Lista che però risorge ogni anno all’incasso della quota di finanziamento pubblico.

Chiamatela anomalia se volete, paradosso della politica nostrana. Paradossale, del resto, è che i nostri partiti nella Finanziaria approvata prima di Natale abbiano fatto il bel gesto di tagliarsi il 10% del finanziamento pubblico annuale, sbandierando urbi et orbi che rinunciavano così a 20 milioni d’euro su 200 a far data dall’anno in corso. Gran successo del Pd e dell’Unione, attenti ai problemi del Paese e in sintonia con la gente che fatica ad arrivare a fine mese, spiegavano le fonti governative. Solo che, dopo nemmeno due mesi, grazie allo scioglimento anticipato del Parlamento, hanno raddoppiato le tranches legate alle elezioni di Camera e Senato sino al 2011, grazie ad una leggina approvata all’unanimità nel 2006. Sino ad allora, era stabilito che se una legislatura s’interrompeva anzi tempo, lì finiva il rimborso in corso e subentrava quello della nuova legislatura. Cosa normale e logica, ma i tesorieri di partito obiettavano che lo scioglimento anticipato comportava un aggravio di spesa. La leggina, dunque, riparava il danno garantendo – oltre al nuovo – anche il completamento del vecchio rimborso. Il risultato è che il montepremi complessivo è sceso a 180 milioni annuali per risalire in un batter d’occhio a 270 già quest’anno. Il risparmio insomma, s’è tramutato in più 70 di costo. E sino al 2011, Camera e Senato fruttano il doppio. Per tutti, grandi e piccini.

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