La pace dorme, la guerra russa del caucaso

 
Una donna ferita tra le macerie di Gori
Il conflitto tra Mosca e Tbilisi in poche ore ha distrutto la vita di decine di migliaia di civili. Cinque giorni di conflitto in Ossezia del Sud hanno infatti costretto 100mila persone ad abbandonare le proprie case. Il numero dei morti è ancora incerto, non essendo possibili verifiche indipendenti.
Obama e Mccain, due pistola impotenti davanti allo stalinismo hard-war di Putin.
Il primo luglio mille marines Usa hanno partecipato a manovre congiunte con le forze georgiane in una operazione battezzata «Operation Immediate response 2008», conclusasi solo 10 giorni prima della invasione russa. Una coincidenza?
D’altra parte, quello degli intellettuali e dei politici italiani sulla guerra scoppiata in Georgia in questi giorni è un silenzio assordante. Un silenzio che ricorda da vicino quello del ’56 e del ’68 quando le divisioni dell’Armata Rossa invadevano Budapest e Praga soffocando nel sangue gli aneliti di libertà di migliaia di ungheresi e di cecoslovacchi.
La Russia spaventa e imbarazza in equal modo gli ex-comunisti e i seguaci di Berlusconi, amico personale di Vladimir Putin. 
Guerra in Georgia, Ossezia invasa dalle truppe russe

Il presidente della Georgia, Mikhail Saakashvili, si rivolge ai propri cittadini in un discorso televisivo.

Il presidente della Georgia, Michail Saakashvili, in collegamento da Tbilisi con la Cnn a Washington ha detto che «la Georgia non si arrenderà mai». Dopo aver ribadito le sue accuse nei confronti della «invasione» da parte della Russia, Saakashvili ha aggiunto: «La Georgia non si arrenderà mai. Perchè noi combattiamo per la nostra libertà e il prezzo da pagare tornando indietro sarebbe troppo alto. Vorrebbe dire la perdita della libertà, un sentimento che i georgiani hanno conosciuto per decenni e che non possono sopportare. Per questo dico che la Georgia non si arrenderà mai».

I fabbricanti di macerie
Macerie: fabbricare macerie. Solo sulle macerie si può costruire la pace, e l’ archeologia. Un paio di giorni bastano a distruggere: poi verranno anni alacri a riedificare, ed esumare salme. Ossezia del nord e Ossezia del sud furono uno degli sfizi di Stalin con la carta geografica. Sul versante fra Caucaso del nord e del sud, vennero divise in modo da appartenere, la prima, con capitale Vladikavkaz (è lì che si trova Beslan), alla Russia, la seconda alla Georgia. Immaginiamo un Tirolo caucasico. E teniamo conto delle misure. La Cecenia, vi ricorderete, è grande come la Calabria, e aveva, prima d’ esser più che decimata, poco più di un milione di abitanti. L’ Ossezia del sud è più piccola del Molise, e non tocca i centomila abitanti. L’ Abkhazia ne ha attorno a 200 mila – gli abkhazi sono la metà – ed è grande, cioè piccola, come l’ Umbria. è attorno a territori e a popoli così minuscoli che si scatena una simile furia. La Georgia, un quarto dell’ Italia e meno di cinque milioni di abitanti, rivendica la propria sovranità su Abkhazia e Ossezia del sud, dopo essersi dichiarata indipendente dalla Russia al momento dell’ esplosione dell’ Urss, nel 1991. Ma nello stesso momento le due piccole regioni si dichiararono indipendenti dalla Georgia, e ricorsero alla Russia come protettrice. In questa tragicomica festa da ballo, alcune lezioni splendono. La prima: che tutte le potenze, quando giocano col mappamondo, seguono il criterio che di volta in volta assecondi i loro interessi materiali o i loro capricci psicologici. Non è vero che le democrazie agiscano allo stesso modo delle autocrazie: è vero però che non agiscono in modo abbastanza dissimile, e specialmente che non rinunciano alle doppie misure. Così, il riconoscimento dell’ indipendenza del Kosovo – alla cui origine stette lo sciovinismo serbo – è venuto dopo che la comunità internazionale ha lasciato degradarsi e precipitare la situazione di quella regione, nonostante la catastrofe della Bosnia, fino a rassegnarsi all’ investitura di un’autorità malavitosa e alla vendetta sulla minoranza serba. La Russia, che aveva perpetrato un vero genocidio contro il secessionismo della Cecenia, dopo averlo di fatto autorizzato, ha denunciato il secessionismo del Kosovo e il suo riconoscimento americano ed europeo, e ne ha fatto il pretesto per un invadente infeudamento dei “fratelli serbi”, e soprattutto delle loro risorse economiche e militari. La stessa Russia, che ha scommesso sulla distruzione della ribellione cecena prima, e su petrolio e gasolio e grano poi, il restauro spettacoloso della propria potenza imperiale, ha chiamato terrorista la rivendicazione indipendentista cecena o inguscia o di ogni altra mossa centrifuga nel mosaico del Caucaso del nord, e si presenta come tutore cavalleresco – “peacekeeper”: che bocca grande che hai – del secessionismo abkhazo e sudosseto. Le cui minoranze hanno molte ragioni dalla loro (non sono nomi esotici da cercare con la lente d’ ingrandimento sulle carte: sono luoghi fatati, così l’ Abkhazia del Vello d’ oro o del Prometeo caucasico) e però hanno attraversato processi simili ai regimi di malaffare delle minoranze kosovara o serbobosniaca nella ex-Jugoslavia, come l’ Ossezia meridionale. Luoghi minimi, ma di cerniera fra le genti, e di enorme peso simbolico – le guerre si fanno soprattutto per ragioni simboliche, sangue vero e posta simbolica, una qualche Elena, neanche tanto bella – hanno sperimentato dall’una e dall’ altra parte il metodo che da sempre, e oggi più che mai, i grossi seguono per ingoiare i piccoli: “ripopolando” con la propria etnia il loro territorio, così da diventare maggioranza, ieri georgiani (ne sono stati espulsi dall’ Abkhazia quasi 200 mila), oggi russi (ha ricevuto il passaporto russo il 90 per cento degli osseti meridionali). Il metodo cinese in Tibet. Altra lezione: le potenze sono stupide. Non dico solo che non siano lungimiranti, o appena intelligenti. Sono stupide, ottuse. Non è la maledetta sete di petrolio che rende stupidi: però rende più stupidi. Il petrolio è spesso la causa, altre volte il pretesto. E si moltiplicano colà oleodotti e gasdotti, pacchia dei terroristi venturi. Altre volte la stupidità e il furore trionfano senza che corra una goccia di petrolio. (O, come nel caso russo-georgiano-osseto, senza una goccia di islam). Basta pensare alla differenza fra l’ oggi, e il momento, un pugno d’ anni fa, in cui la svolta filoamericana del presidente georgiano Saakashvili si tradusse nell’ impianto di consiglieri militari Usa nel Paese (e in altri della cruciale fascia turchica dell’ Asia centrale): la Russia di Putin sembrava alle corde, e la politica occidentale e la Nato agivano come se fosse destinata ad andare al tappeto. Oggi Saakashvili ha scelto di forzare la mano ai suoi protettori occidentali – forzarla appena, perché la sua mossa era imprevista, ma solo per una differenza di pochi giorni, intanto che Putin in camicia salutasse gli atleti a Pechino e Medvedev pescasse sul Volga – e gliene è incolso un gran male, perché la Russia è tutt’ altra da quella dell’ indomani dell’ 11 settembre. Il tempo di un cambio di camicia con una mimetica, e Putin ha presieduto da Vladikavkaz a una ritorsione militare così schiacciante da far retrocedere la Georgia a rotta di collo. Altro che pirotecnia pechinese. E solo se fosse impazzito Saakashvili potrebbe immaginare oggi una discesa in campo militare degli Usa o della Nato al suo fianco: e doveva essere assai annebbiato per non prevedere che la spedizione a Tskhinvali sarebbe stata un regalo magnifico alla gloria guerresca di Putin. Altra lezione: la potenza è per definizione smisurata. Bush che protesta contro l’ eccesso della ritorsione russa vuole scherzare: proprio lui, poi. La potenza disconosce e disprezza le proporzioni. Questa scacchiera caucasica (la culla del mondo, forse, dell’ Europa certo) lo mostra spettacolarmente: il confronto semimondiale fra onnipotenze – se non altro perché ciascuna è in grado di provocare la fine del mondo – si accende e divampa sulla sorte di un paesino di montagna e della sua poca gente, pastori millenari e croupier reimmigrati. Semimondiale, perché qualcuno per il momento può starne alla larga, e, come la Cina, riderne di gusto. Sospendiamo l’ elenco delle lezioni – vecchio elenco, del resto. E vediamo la piccola novità della guerra lampo. Vuol dire che non è affatto destinata a finire presto, e forse mai – finirà mai la guerra in Cecenia? – ma è la guerra che esplode in un lampo. Non ha bisogno di incubare, non aspetta macchinazioni diplomatiche, telegrammi di Ems, provocazioni terroristiche, attentati di Sarajevo, tergiversazioni sull’ alleanza con cui schierarsi: si scatena in un batter d’ occhio, emula finalmente del disastro naturale, del terremoto, dello tsunami, che non a caso sono ormai il lessico prediletto dalla politica quotidiana. Abitate nel vostro appartamento di Tskhinvali, o di Tbilisi, o di Gori, siete usciti a comprare la famosa anguria della costa del Mar Nero, vi siete preparati a guardare l’ inaugurazione di Pechino, siete un vecchio seduto all’ ombra su una panchina, oppure una ragazza che ha preso un appuntamento con un ragazzo, e in un momento siete estirpati dalla vostra terra, voi e le vostre case e i vostri giardini e i vostri pensieri. Finito. Mettiamo che i morti ammazzati di Tskhinvali siano davvero duemila: sui 35 mila della popolazione! E decine di migliaia di profughi. La guerra? I russi, mentre la loro aviazione bombardava smisuratamente, spiegavano di non essere in guerra. I georgiani, mentre ritiravano le loro truppe dall’ incauta avventura, gridavano: siamo in guerra. Sapete, le parole non sono bombe. Ho conosciuto alcuni dei luoghi contemporanei che ricevono il nome di guerra. Abbastanza da provare una ripugnanza per lo sventato ricorso a parole guerresche in altri luoghi – l’ Italia, per esempio, da più di sessant’ anni a questa parte. So che differenza c’ è fra abitare a Grozny, o a Sarajevo, o a Kigali e a Tskhinvali, e abitare a Firenze o a Napoli. Dunque so spiegarmi la facilità con cui passiamo oltre le immagini di Grozny ieri, di Tskhinvali oggi, e torniamo alla semifinale di nuoto quattro stili. Tuttavia in quella imminenza di un espianto improvviso dalla propria casa, dalla propria terra, dall’ appuntamento con la propria ragazza, in cui tanta parte del mondo vive e muore, guerre e terremoti, tsunami e terrorismo, c’ è una campana che suona anche per noi.  Adulti vanitosi, gente che spesso alza il gomito, e che non è comunque all’ altezza, guidano macchine troppo potenti per loro. è come dare in mano a un ragazzo, nuovo alla notte fonda e alla birra e alla guida, un’ automobile che fa i 240, e stupirsi che non stia sotto i 60. Anzi, non è così, è molto più pazzesco. La gente che intervistata mette in cima alle proprie preoccupazioni la propria sicurezza, e poi dettaglia: gli zingari, gli scippi… Forse ha sentito l’ universalità di quel vento che espianta le città. Forse ha sentito il repentaglio della terra intera, in cui il famoso rischio è globale, e i Paesi di monte e di mare da centomila abitanti vogliono ancora vivere e morire per diventare Stati, e accomodarsi, da sovrani, come un osso nelle fauci del competente lupo cattivo (Adriano Sofri – Repubblica — 11 agosto 2008).

1 Comment so far

  1. sandro on 15 Dicembre, 2013

    Un cretinata da un capo ad altro, copia della cosidetta libera pressa occidentale. Invasione russa…si, solo quando mangi gli stessi spaghetti con gli occhi chiusi, facendo il democratico, piccolo capitalista di me*da dominicale…Nn avete la minima idea di quello chè è successo laggiù, ma intanto andate a vedere 5 giorni di guerra senza chiedere perchè nn fanno vedere il doc russo con le attrocità gruzine… ?Vi farà freddo.

Lascia un commento