Il monumento naturale di Corviano (VT)
La prima meta dopo il lockdown: una passeggiata nel “Monumento naturale di Corviano (VT)” un’esperienza a stretto contatto tra natura, storia ed archeologia, fuse insieme armonicamente.
Si trova all’interno del Comune di Soriano nel Cimino, sulla strada statale Ortana all’altezza del km 12, in località Santarello.
Il monumento Naturale di Corviano (istituito nel 2007) occupa il piano sommitale di una rupe che si solleva sui boschi che separano Bomarzo e Vitorchiano e s’incunea tra valli di fiumi; un’area estremamente peculiare e ricca sia sotto il profilo naturalistico che per le emergenze archeologiche presenti.
Qui, sul pianoro di peperino tipico del paesaggio della Tuscia, delimitato da alti strapiombi rocciosi che offrono un punto di belvedere spettacolare sulla sottostante Selva di Malano, punteggiata di voluminosi massi erratici, si conservano resti di mura etrusche e romane, antiche abitazioni ipogee e i ruderi di un castello e di una pieve medievale con il piccolo cimitero annesso.
Nella nostra escursione avvenuta nella seconda metà di giugno abbiamo ammirato inoltre un’alternanza di ambienti naturali assai diversi: grandi prati fioriti, boschetti di roverelle, lastroni di tufo e rocce levigate ammantate di muschio, radure di macchia mediterranea, assolate pareti verticali di roccia dominanti sulla rigogliosa e talvolta impenetrabile giungla riparia oltre ai resti archeologici celati –ma non troppo– dalla vegetazione.
Vediamo ciò che resta dell’abitato medievale di Corviano, le pestarole, i ruderi della chiesina, le tombe antropomorfe e quello che resta del villaggio, le cui abitazioni erano invisibili ad eventuali nemici, nascoste agli occhi ostili, scavate sottoterra, attrezzate nelle grotte, accessibili in gran parte soltanto dalle pareti rocciose grazie a pianerottoli e scale mobili, ci inoltriamo in una forra, tra i ruderi del castello, dal passato importante, fatto costruire in data imprecisata, nel 1278 passato ad Orso Orsini, nipote del papa Niccolò III, poi a lungo conteso tra gli Orsini ed i Viterbesi.
Nel 1282 il castello è saccheggiato e distrutto a seguito delle guerre tra i Viterbesi e gli Orsini, ma l’abitato continua ad essere menzionato fino al 1304. Anche se non è certo il definitivo abbandono proprio in quegli anni, si può delineare almeno una grossa perdita d’importanza del centro nel quadro territoriale.
Il castello di Corviano, posto sopra uno sperone roccioso alto tra i 20 e i 30 metri, delimitato naturalmente dai Fossi Vezza e Martelluzza, è ora diroccato e nascosto da una intrigata macchia di ginestre e querce. Rimangono i resti del perimetro murario, con la forma a quadrilatero, di struttura per lo più romanica e con un profondo e largo vallo artificiale forse etrusco posto a difesa del lato aperto sull’altopiano. Le sue fondamenta poggiano però sui resti di una cinta muraria etrusco-romana, a grossi blocchi, visibili nella foto.
Sull’altopiano, oltre al castello, vi sono i resti un antico insediamento abbastanza esteso, con resti di una cinta muraria, almeno 20 abitazioni ipogee e una chiesa.
Non si hanno testimonianze circa l’anno di fondazione, ma in un documento ecclesiastico si cita una donazione nel 747 di un “Fundum Corbiani” da parte di Carlomanno (fratello di Pipino il Breve) al Monastero di S. Andrea in Flumine (situato vicino Ponzano Romano).
All’interno del perimetro murario castellano sono individuabili alcune tracce di una piccola chiesa medioevale riconoscibile da un pilastrino d’altare.
La zona, che si estende per circa 70 ha, è estremamente peculiare sia sotto il profilo naturalistico che per le emergenze archeologiche, mentre, per le sue caratteristiche strategiche e per la sua facile difendibilità, è stato occupato già dall’alto medioevo. Sotto il profilo naturalistico è caratterizzato da una elevata biodiversità, cioè un altissimo numero di specie viventi concentrate in piccole superfici.
Attualmente il Monumento è in fase di studio e riqualificazione in collaborazione tra il Comune di Soriano nel Cimino, i diversi Enti locali e l’Università degli Studi della Tuscia.
Il sito di Corviano si trova ad una quota che va dai 210 ai 279 m s.l.m, rientra nella zona di confine delle fasce fitoclimatiche Lauretum freddo – Castanetum caldo.
La vegetazione è di tipo sub-mediterraneo a prevalenza di latifoglie decidue. I boschi sono a dominanza di cerro e roverella con penetrazioni di leccio e altre specie. Il paesaggio è caratterizzato da tre ambienti principali: il bosco misto a cerro-roverella, distribuito sopra il pianoro tufaceo, interrotto da radure con lastroni di peperino affioranti su cui crescono specie erbacee e piccoli arbusti molto frugali come i cisti; l’ambiente xerofilo rupestre, in corrispondenza delle pareti scoscese del pianoro, con alberi e arbusti in grado di crescere su substrati rocciosi, come il leccio e il bagolaro; l’ambiente di forra fluviale con specie più igrofile come l’ontano presso il greto del torrente Martelluzzo, mentre il sambuco e l’olmo risalgono lungo le pareti dei valloni.
Molto ricca è anche la popolazione animale: tra i mammiferi si ricordano il riccio, l’istrice, il ghiro, la donnola, la martora, il cinghiale.
Tra i rettili si segnalano il ramarro occidentale, la lucertola muraiola, la lucertola campestre, la luscengola. Tra gli anfibi, i più comuni sono il rospo comune e le rane verdi del gruppo Pelophylax. Numerose sono anche le specie di uccelli, in relazione alla diversità ambientale del sito. Infine il torrente Martelluzzo ospita il cavedano e il gambero di fiume.
Le ripide pareti della rupe sono costituite dai depositi piroclastici sialici eruttati dall’apparato cimino: il “peperino tipico del viterbese”, successivamente ricoperti dalle vulcaniti alcalino-potassiche dell’apparto vicano che inizia la sua attività alla fine di quella cimina.
Complessivamente questi depositi costituivano un ampio plateau vulcanico che è stato profondamente inciso dall’azione delle acque. I processi erosivi nel corso del tempo hanno scalzato alla base i depositi vulcanici generando una serie di frane di crollo e di ribaltamento che hanno modellato le pareti tufacee.
I successivi crolli hanno prodotto un mosaico di grossi blocchi lapidei localmente definiti “massi erratici”, che si sono accumulati alle loro pendici sui sottostanti depositi sedimentari marini (prevalentemente a base argillosa) generando un paesaggio molto peculiare.
Questi processi franosi sono tuttora attivi e nuovi crolli rischiano di compromettere la stabilità della rupe e di danneggiare le sue notevoli testimonianze archeologiche. Si ritiene che i grandi massi di peperino, che si sono staccati dalla rupe e che si trovano a fondo valle, venissero utilizzati sia come luoghi sacri, sia per impiantare vigneti.
La vite veniva posta alla base di un grosso blocco ed i tralci venivano portati sulla sua superficie e sostenuti da un sistema di pali per garantire una ottimale esposizione. Il calore diretto del sole associato a quello trasmesso dalla roccia favoriva la maturazione dei grappoli. Questo ingegnoso sistema garantiva la possibilità di mitigare le condizioni climatiche del luogo, non particolarmente favorevoli alla coltivazione della vite.
L’area era certamente antropizzata in età preromana e romana, quando il territorio venne dotato dalla via publica Ferentiensis che, staccandosi dalla via Cassia, assicurava i traffici commerciali verso la Valle del Tevere.
L’insediamento di Corviano è citato nelle fonti alla fine dell’XI secolo e ancora agli inizi del ‘200 in Corviano compaiono localizzati una serie di beni appartenenti alla chiesa viterbese di S. Bonifacio e S. Stefano. Le emergenze medievali che tuttora si osservano sul pianoro testimoniano i momenti salienti della vita del sito nei secoli che vanno dall’XI al XIV.
I rimaneggiamenti e le tracce di una riorganizzazione dell’insediamento sono ben osservabili dall’analisi delle tracce di scavo, che rivelano un miglioramento degli spazi abitativi e produttivi attraverso, ad esempio, l’accorpamento di diversi ambienti o l’aggiunta di scale che mettono in diretta comunicazione le cavità con il livello del pianoro. I resti di una chiesa e una necropoli con tombe antropomorfe “a logette” completano il panorama delle emergenze archeologiche dell’area.
Nascoste da una boscaglia fitta ed intricata, e a picco sulle ripide pareti di peperino, si distinguono due diverse tipologie di abitazioni: la maggior parte è costituita da quelle con accesso parietale, mentre le altre hanno l’accesso costituito da gradini intagliati nella roccia.
Tutte la cavità hanno più o meno subito stravolgimenti nel corso degli utilizzi successivi, con ampliamenti e modifiche: la cavità/abitazione “tipo”, inizialmente, presenta per lo più un solo grande vano, ma molte hanno subito nei secoli degli ampliamenti portandole a 2 o 3 vani.
Gran parte delle abitazioni presentano una sola grande apertura affacciata sul dirupo (accesso parietale) ed erano raggiungibili solo attraverso l’utilizzo di passerelle e scalette lignee che venivano ritirate in caso di necessità.
Nell’abitato una delle cavità presenta una particolarità non del tutto visibile: ha un accesso con una doppia scala intagliata nella roccia, la prima, visibile, va verso l’ingresso, mentre la seconda è a destra dell’accesso.
Dopo il Castello, seguendo ancora il sentiero che costeggia il versante settentrionale della rupe, si giunge ad un antico insediamento ipogeo costituito da circa venti abitazioni scavate nella roccia costantemente utilizzate nei secoli fino alla seconda Guerra Mondiale quando furono usate come rifugi. Avvicinandosi al bordo con un po’ d’attenzione si svelano i gradini d’accesso alle grotte sotterranee.
Le prime due grotte hanno il soffitto crollato, ma la terza è un appartamento bi-vano di grande interesse e ancora in buono stato. Sei gradini scendono all’ingresso dell’abitazione, intagliato nella roccia in forma regolare, con i fori negli stipiti che reggevano le strutture della porta. Il primo ambiente ha una forma arrotondata. Una grande apertura s’affaccia direttamente sul burrone.
Si riconosce il focolare in corrispondenza di un buco nel soffitto che fungeva da canna fumaria. La parete interna ospita una profonda nicchia con una piccola vasca sopra una rientranza sottostante. A fianco si osserva un’attaccaglia, una sorta di maniglia ottenuta forando la roccia, alla quale venivano solitamente legati gli animali da soma o appesi dei contenitori. Attraverso tre gradini e un’angusta porticina ci si trasferisce nel vano a fianco. Anche qui si trova una grande finestra aperta sul baratro sottostante con i consueti fori nella roccia che ospitavano i perni del portale.
Ma l’attrazione ambientale è costituita dal pavimento, dove sono scavati pozzetti, fori, depressioni e canaline di scolo. Si può ipotizzare per quest’ambiente un utilizzo come laboratorio o bottega artigiana affiancata all’abitazione principale.
Usciti dalle grotte si raggiunge ora la punta del pianoro, la prua del piano rupestre puntata verso il mare di boschi sottostante, il belvedere orientato verso la Selva di Malano punteggiata di voluminosi massi erratici esplosi dai vulcani presenti nell’area.
Inizia ora l’esplorazione dell’altro versante, quello orientale, sovrastante il torrente Martelluzzo. Anche qui la rupe è apparentemente deserta. Basta però affacciarsi sul vuoto della parete per scoprire grandi buchi, rocce cariate, aeree finestre, indizi di segrete cavità. E allora perlustrando attentamente gli anfratti del ciglione della rupe, si palesano brevi rampe di scale occultate nel verde. Su questi gradini si discende in antri nascosti, che rivelano numerose tracce di una civiltà sepolta. Nove sono i gradini che conducono a una bella porta scolpita nella roccia con l’architrave spezzato dalle radici di un albero intraprendente. Varcata la porta si svelano due stanze separate da una paretina di roccia parzialmente crollata.
Le aperture sul dirupo sono numerose, frutto di scavi finalizzati ma anche di fratture e assestamenti delle rocce a seguito di remoti terremoti. Sul fronte interno sono evidenti tre arcosoli, con letti di roccia a baldacchino, le alcove dei nostri antenati. Sorprendente è l’avvallamento centrale a forma di teschio, ben visibile sul pavimento, con tre fori disposti a triangolo e un quarto foro laterale. Potrebbe trattarsi del focolare con le basi del treppiede che sosteneva la caldaia per la cottura dei cibi. Sulla parete è inciso un calvario devozionale, una croce piantata sul monte Golgota.
Più avanti è un’altra abitazione rupestre, un trilocale cui si accede con una scala di sei gradini. L’interesse è dato qui dalla ristrutturazione operata in epoca moderna. La porta, le finestre e le stanze sono tamponate con mattoni e blocchetti di tufo. L’apertura sul dirupo è stata ristretta e conserva ancora sullo stipite un gancio di metallo per la porta. Si riconosce facilmente il camino: il focolare e le pareti sono realizzati con blocchetti di tufo mentre il tiraggio sfrutta una fessura del soffitto.
La visita del villaggio medievale può concludersi presso i ruderi della chiesa, situata più avanti, sempre sul bordo della rupe. Si tratta in realtà quasi di una cappella, a una sola navata, lunga 10 metri e larga cinque. Gli scavi hanno rivelato il perimetro esterno, l’abside semicircolare e l’altare abbattuto. Alle spalle della chiesetta si trova la necropoli che conta una trentina di tombe a fossa scavate nel tufo, spesso di tipo antropomorfo e alcuni sarcofaghi rocciosi. Il luogo, una radura nel bosco dove affiorano i resti archeologici, ha una sua indubbia suggestione.
Del resto tutto il pianoro di Corviano si presenta all’escursionista con un’alternanza di ambienti naturali assai diversi: grandi prati fioriti, boschetti di roverelle, lastroni di tufo e rocce levigate ammantate di muschio, radure di macchia mediterranea, assolate pareti verticali di roccia dominanti sulla rigogliosa e talvolta impenetrabile giungla riparia.
Il ritorno può compiersi sul percorso dell’andata, oppure completando l’anello del bordo orientale. In questo caso si percorre una strada scavata nella roccia, scivolosa in alcuni tratti, che riporta al guado del torrente Martelluzzo.
Lungo il sentiero si incontrano pareti di tufo utilizzate per esercitazioni di free-climbing e seguendo queste pareti, lungo il percorso del torrente, si arriva alle cascatelle del Martelluzzo ove sono presenti anche i resti di un vecchio mulino; il luogo è alquanto suggestivo.
Per ritornare sul percorso di rientro bisogna arrampicarsi sulle pareti di tufo ove sono stati agganciati appositi appigli quali catene in ferro e gradoni in legno.
Nell’ultimo tratto del sentiero è possibile esplorare gli affioramenti rocciosi sulla destra per scoprire alcune vasche scavate in successione nella roccia, utilizzate forse come pestarole per la spremitura dell’uva e la raccolta del mosto, oppure come canapine, e cioè vasche per la macerazione e la lavorazione della canapa.
L’escursione ci ha dato l’occasione per un tuffo indietro nel tempo tra le bellezze paesaggistiche e naturalistiche di questo angolo incontaminato della Tuscia.
Provare la sensazione di come luoghi di prossimità ci facciano ritrovare l’antica bellezza e riscoprire panorami incontaminati del nostro territorio, ricchi di storia, a due passi da casa. Quella ricchezza che potrà essere davvero l’elemento da cui ripartire per sollecitare un turismo interno.
Buonasera,
molto interessanti le notizie che ci ha fornito.
Mi può dire quali fonti ha consultato, semmai quelle disponibili on line? oppure se ha qualche pdf da inviarmi?
Grazie
Luca Teodori