La Fallaci legge…


La giornalista scrittrice, morta 2 anni fa, registrò il suo best seller “Lettera a un bambino mai nato” nel 1993. Un’occasione unica per risentire la voce di Oriana Fallaci, le sue riflessioni, i dubbi, le angosce e i sensi di colpa che accompagnano la scelta di chi ha il potere di dare o negare la vita.
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L’incipit della lettera  – “Stanotte ho saputo che c’eri: una goccia di vita scappata dal nulla. Me ne stavo con gli occhi spalancati nel buio e d’un tratto, in quel buio, s’è acceso un lampo di certezza: sì, c’eri. Esistevi. È stato come sentirsi colpire in petto da una fucilata. Mi si è fermato il cuore. E quando ha ripreso a battere con tonfi sordi, cannonate di sbalordimento, mi sono accorta di precipitare in un pozzo dove tutto era incerto e terrorizzante. Ora eccomi qui, chiusa a chiave dentro una paura che mi bagna il volto, i capelli, i pensieri. E in essa mi perdo”.  Così inizia il monologo della madre alla vita in nuce che porta in grembo. Non sa nulla di quel bambino, sa soltanto che è sangue del proprio sangue, e che dipenderà in tutto e per tutto dalle sue scelte.
Il libro è il tragico monologo di una donna che aspetta un figlio guardando alla maternità non come a un dovere ma come a una scelta personale e responsabile. Scritto nel 1975 in seguito alla perdita di un figlio, Lettera ad un bambino mai nato è un libro di non più di cento pagine, in cui Oriana Fallaci riesce a condensare il travaglio di una donna di fronte ad una maternità inaspettata. È un libro complesso, del quale il titolo suggerisce solo l’epilogo drammatico. Il lettore può esserne ingannato, e aspettarsi fin dalle prime pagine di assistere allo sfogo femminista di chi vuole far valere e imporre una posizione. In realtà non è così. Il libro ha il pregio di trattare un tema spinoso come quello dell’aborto lasciandolo però sullo sfondo, facendo emergere, invece, il tema centrale della maternità, che si snoda attraverso il dialogo di una donna con il bimbo che porta in grembo.
Seguendo questo filo conduttore, come fosse un cordone ombelicale, si ricostruisce la vita, le paure e le gioie di una donna, senza un volto e un nome preciso, incarnazione dei sentimenti di chi come lei ha dovuto affrontare la scelta di essere madre. Accettare questo ruolo non è semplice. Per una donna sola la scoperta di portare in grembo un figlio può essere un ostacolo. È così anche per la protagonista, che inizia un estenuante e doloroso monologo con il figlio — e soprattutto con se stessa — alla ricerca di una risposta e nel finale, la scrittrice sembra volere interrogare proprio il lettore.

Durante gli interminabili dialoghi, Oriana Fallaci riesce a fare emergere la paura di una donna di fronte alla propria vita e alla società. Attraverso altri protagonisti della sua vicenda, la realtà quotidiana viene sminuzzata e rivissuta attraverso l’ostilità del medico, la vigliaccheria del padre del bimbo, il femminismo dell’amica, la comprensione dei genitori, il sostegno della dottoressa, e la superficialità del datore di lavoro. Un intero mondo con cui confrontarsi. Ogni personaggio incarna un pezzetto di una verità mai univoca, che non esita a minare la certezza della scelta iniziale e a insinuare il dubbio.
Il nodo del libro infatti è il processo che la donna, dopo avere perso per sempre il figlio, si trova ad affrontare attraverso un sogno allucinato. Si trova proiettata all’interno di un tribunale, dietro le sbarre di una gabbia, mentre la propria coscienza viene processata. Tra i giudici, i sette protagonisti della sua vita e il figlio, ormai adulto. È allora che le posizioni si ribaltano: è quest’ultimo adesso ad avere tra le mani la vita della madre e a dovere emettere la sentenza.
Mi son sempre posta l’atroce domanda: e se nascere non ti piacesse? E se un giorno tu me lo rimproverassi gridando “Chi ti ha chiesto di mettermi al mondo, perché mi ci hai messo, perché?”. La vita è una tale fatica, bambino. È una guerra che si ripete ogni giorno, e i suoi momenti di gioia sono parentesi brevi che si pagano un prezzo crudele. Come faccio a sapere che non sarebbe giusto buttarti via, come faccio a intuire che non vuoi essere restituito al silenzio? Non puoi mica parlarmi. La tua goccia di vita è soltanto un nodo di cellule appena iniziate. Forse non è nemmeno vita ma possibilità di vita. Eppure darei tanto perché tu potessi aiutarmi con un cenno, un indizio. La mia mamma sostiene che glielo detti, che per questo mi mise al mondo.
La mia mamma, vedi, non mi voleva. Ero incominciata per sbaglio, in un attimo di altrui distrazione. E perché non nascessi ogni sera scioglieva nell’acqua una medicina. Poi la beveva, piangendo. La bevve fino alla sera in cui mi mossi, dentro il suo ventre, e le tirai un calcio per dirle di non buttarmi via. Lei stava portando il bicchiere alle labbra. Subito lo allontanò e ne rovesciò il contenuto per terra. Qualche mese dopo mi rotolavo vittoriosa nel sole, e se ciò sia stato bene o male non so. Quando sono felice penso che sia stato bene, quando sono infelice penso che sia stato male. Però, anche quando sono infelice, penso che mi dispiacerebbe non essere nata perché nulla è peggiore del nulla. Io, te lo ripeto, non temo il dolore. Esso nasce con noi, cresce con noi, ad esso ci si abitua come al fatto d’avere due braccia e due gambe. Io, in fondo, non temo neanche di morire: perché se uno muore vuol dire che è nato, che è uscito dal niente. Io temo il niente, il non esserci, il dover dire di non esserci stato, sia pure per caso, sia pure per sbaglio, sia pure per l’altrui distrazione. Molte donne si chiedono: mettere al mondo un figlio, perché? Perché abbia fame, perché abbia freddo, perché venga tradito ed offeso, perché muoia ammazzato alla guerra o da una malattia? E negano la speranza che la sua fame sia saziata, che il suo freddo sia scaldato, che la fedeltà e il rispetto gli siano amici, che viva a lungo per tentar di cancellare le malattie e la guerra. Forse hanno ragione loro. Ma il niente è da preferirsi al soffrire? Io perfino nelle pause in cui piango sui miei fallimenti, le mie delusioni, i miei strazi, concludo che soffrire sia da preferirsi al niente. E se allargo questo alla vita, al dilemma nascere o non nascere, finisco con l’esclamare che nascere è meglio di non nascere. Tuttavia è lecito imporre tale ragionamento anche a te? Non è come metterti al mondo per me stessa e basta? Non mi interessa metterti al mondo per me stessa e basta. Tanto più che non ho affatto bisogno di te.

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