Costi della politica
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Senato, si va in pensione a 53 anni
131.000 euro di reddito medio per i dipendenti
ROMA – I questori del Senato, decisi a tagliare i privilegi, stanno per proporre ai sindacati interni un immenso sacrificio: da gennaio tutti in pensione a 53 anni. Chiederete: è uno scherzo? Per niente: mentre il resto del Paese discute sul limite dei 61 anni (dal 2013) e la Germania ha già alzato l’asticella per arrivare a 67 anni, i dipendenti di Palazzo Madama possono ancora ritirarsi (in gran parte) quando sono sulla cinquantina, belli e aitanti.
Andando a prendere fino al 90% dell’ultima busta paga. E facendo ….
marameo (fino a quando non verrà fatta una riforma seria) all’introduzione del sistema contributivo introdotto per tutti gli altri lavoratori italiani da oltre dodici anni. Il tema dell’innalzamento dell’età pensionabile, in realtà, è solo una delle questioni più spinose. E Dio sa se i senatori non preferirebbero evitare ogni possibile scontro, sia pure vellutato, con quel personale che così ossequiosamente li accudisce. La situazione, però, si è fatta insostenibile: la spesa per i dipendenti, compresi quelli a tempo determinato, è salita quest’anno a 158.407.000 euro. Il doppio (esattamente il 101% in più) rispetto al ‘97. Con un aumento reale, tolta l’inflazione, del 66,2%. Ci hanno detto e ripetuto in questi anni che siamo in tempi di vacche magre e che i cittadini tutti devono stringere la cinghia?
Bene: dal 1997 (quando erano 884 contro i 1.053 di oggi: più 169) gli addetti alla camera alta, dal magazziniere al segretario generale, hanno visto mediamente crescere la loro retribuzione netta del 46,58% in termini monetari e del 21,64% in termini reali, senza l’inflazione. Un trattamento deluxe, pari a circa il doppio del parallelo aumento registrato nello stesso decennio dagli stipendi degli altri dipendenti pubblici (più 12,5% reale) e quasi al quadruplo dei ritocchi (più 6,4%) strappati sempre dal 1997 al 2007 dai lavoratori delle industrie private. Neppure lo scandalo intorno ai costi esorbitanti della politica e dei Palazzi, esploso un anno fa dopo una serie di servizi del Corriere, è servito ad arginare l’onda lunga. Ricordate l’irritazione alla scoperta che un dipendente medio guadagnava nel 2006 la bellezza di 118 mila euro? Bene: adesso ne guadagna 131.124. Cioè 13.000 in più. Con un aumento dell’11%. Sei volte e mezzo l’inflazione. Risultato: perfino i dati sparati da L’Espresso a luglio, quelli che fecero strabuzzare gli occhi agli italiani nel leggere che il segretario generale Antonio Malaschini coi suoi 485 mila euro prendeva molto più del doppio del presidente della Repubblica, che uno stenografo arrivava a guadagnarne 254 mila e un barbiere 133 mila (pari a 36 mila più che il Lord Chamberlain della monarchia inglese William Peel) sono oggi vecchi. Da aggiornare in rialzo. E il bello è che, salvo una svolta, continueranno a crescere.
Le regole dicono infatti che se i questori del Senato non spediranno una disdetta ai sindacati dei dipendenti (una decina e piuttosto combattivi) entro il prossimo 31 dicembre, il contratto si intenderà automaticamente rinnovato per altri tre anni. E per capire come sia fatto, quel contratto d’oro zecchino, è sufficiente spiegare un dettaglio: ventidue anni dopo il referendum del 9 giugno 1985 sull’abolizione della scala mobile per tutti gli altri italiani, i lavoratori di Palazzo Madama possono ancora contare su una scala mobile tutta loro. In base alla quale il loro stipendio cresce ogni anno dello 0,75% oltre al recupero dell’inflazione programmata. Questa era stata fissata al 2%? L’aumento è del 2,75%. Con un regalino ulteriore. Nel caso l’aumento del costo della vita sia superiore a quello programmato, questo aumento viene tutto recuperato (inflazione reale al 3%? Aumento del 3,75) ma nel caso sia inferiore, vale la quota programmata: inflazione reale all’1%? Aumento del 2,75. Chiamiamola col suo nome: è un’indecenza. Offensiva nei confronti di tutti i cittadini italiani. A partire da quelli pronti a sottoscrivere la tesi di Franco Marini e Fausto Bertinotti, che dopo la deflagrazione del dossier stipendi spiegarono come il Parlamento dovesse avere un personale di eccellenza. Cittadini disposti a pagare profumatamente i funzionari indispensabili al funzionamento dello Stato. Ma non a riconoscere certi privilegi.
Come il diritto degli addetti alla Camera alta ad accumulare cinque giorni di ferie l’anno perché gli siano liquidati alla fine in base all’ultimo stipendio. O il regalino annuale di 2 milioni di euro distribuiti a pioggia come premio. O la progressione delle retribuzioni che, come avrebbe denunciato in una drammatica e segretissima lettera a Marini il questore Gianni Nieddu, possono impennarsi dall’assunzione alla pensione del 368%: tre volte quelle dei professori universitari, che non sono nemmeno gli statali meno pagati. Financo il rimborso dei taxi e dei permessi per entrare nel centro storico di Roma: 50 mila euro. C’è poi da stupirsi se, con regole così, il personale costa oggi uno sproposito? Pesava, dieci anni fa, per il 37,1 per cento sul costo complessivo del Senato. Oggi è salito di oltre sei punti: 43,2 per cento. Per un totale di 236 milioni di euro. Compresi, come si diceva, i soldi che finiscono ai pensionati. I quali sono oggi 656, costeranno nel 2007 ben 77 milioni e mezzo di euro e incassano mediamente 118 mila euro a testa. Quanto la cosa sia esplosiva lo dice il confronto col 1997: in dieci anni la spesa pensionistica di palazzo Madama è cresciuta dell’80,7%. Tolta l’inflazione, del 49,4%. Un’impennata mostruosa. Dovuta anche, come dicevamo, al fatto che i dipendenti assunti dopo il 1998 possono andare in pensione a 53 anni (purché la somma dell’età, dei contributi, minimo 30 anni, e dell’anzianità di servizio, minimo 21 anni, faccia almeno 109) e con l’eventuale ricongiungimento contributivo interamente a carico del Senato. Cioè quattro anni prima di chi ha la salute minata da lavori usuranti quali i minatori, i palombari, gli operai chimici che si calano nelle autoclavi, i fuochisti che lavorano agli altoforni. Cinque in meno di splendidi sex symbol del cinema come Fanny Ardandt o Richard Gere. Eppure in gran parte, se assunti prima del 1998, possono andare in pensione anche prima. Il tutto dodici anni dopo la riforma che porta il nome di Lamberto Dini. Alla faccia di chi si scanna sullo scalone, lo scalino, i quarant’anni di contributi…
Sergio Rizzo
Gian Antonio Stella